Viaggio nelle Americhe
di Sergio Albertini
Desta entusiasmo il doppio appuntamento sinfonico del Teatro Lirico di Cagliari attorno alle festività pasquali. In programma musiche dall'Argentina agli USA.
CAGLIARI 30 marzo - In due weekend successivi la stagione concertistica del Lirico di Cagliari ha offerto un sintetico panorama delle musiche delle due Americhe, con una programmazione intrigante e non banale. Certo, è quanto meno curioso che in un Venerdì Santo (e nel Sabato che lo segue) una importante istituzione musicale scardini ogni prevedibile programmazione. Non mi aspettavo la Passio et Mors Domini Nostri Iesu Christi secundum Lucam di Krzystof Penderecki né lo Stabat Mater di Poulenc o di Szymanowski, ma – suvvia – almeno Die sieben letzten Worte unseres Erlösers am Kreuze di Haydn nella versione per orchestra! E invece, ecco i colori e ritmi dell'America Latina in una serata esaltante, grazie in primis alla direzione muscolosa e danzante assieme di un sorprendente Enrico Fagone, il cui respiro europeo si coglie da una lettura puntigliosa e curata in ogni dettaglio (non a caso ha completato il proprio percorso formativo ad Helsinki con Jorma Panula). Un programma aperto con una pulsante esecuzione del Danzòn nr. 2 di Arturo Marquez; figlio di un mariachi di professione, Marquez mescola in questo brano (che in Messico è una sorta di inno nazionale) la musica cubana e le melodie della regione messicana di Veracruz (attualmente Marquez ha composto nove Danzon). In gran spolvero la ricca sezione di percussioni del Lirico in una esplosione di ritmi e sonorità ricche ora di sensualità, ora di nostalgia.
Il Concerto per bandoneon, archi e percussioni di Astor Piazzolla (eseguito in prima assoluta nel 1979) è un un miracoloso equilibrio tra il suono debole e carezzevole del piccolo bandoneon (suonato con disinvolta bravura da Massimiliano Pitocco) e la massa d'archi, con i puntuali interventi del pianoforte di Clorinda Perfetto ed una schiera di percussioni (capitanata dai timpani di Davide Mafezzoni); nei due movimenti estremi dalla classica forma Piazzolla disegna un tripudio sonoro di fascinazione ritmica, in una costante alternanza maggiore/minore, mentre nel movimento centrale la musica si fa languida e malinconica, sostenuta da alcune increspature dell'arpa. Il bis, una versione diafana, rarefatta di Oblivion (sempre di Piazzolla), accanto al bandoneon di Pitocco ha visto l'eccellente prestazione del violino di Gianmaria Melis.
Argentina ancora, con Alberto Ginastera, una delle voci più originali del panorama musicale latino-americano del Novecento. Le Variaciones concertantes op.23 nascono nel 1962 su commissione degli Amigos de la Musica di Buenos Aires; opera di assoluto rilievo, scritta in un periodo di forti tensioni con il governo di Juan Domingo Péron che lo porta a dimettersi da direttore del conservatorio di La Plata. Dodici movimenti: dopo un Tema per violoncello ed arpa (Robert Witt e Maria Vittoria De Camillo) ed un Interludio per corde, ecco sette Variazioni affidate a turno ad alcuni strumenti; qui Fagone, dal podio, con gesti sicuri, netti, tira il meglio dalle varie prime parti. Così la Variazione giocosa per flauto (Riccardo Ghiani), quella in modo di Scherzo per clarinetto (Pasquale Iriu), quella drammatica per viola (Salvatore Rea), la Canonica per oboe e fagotto (Gabriele Palmeri e Giuseppe Lo Curcio), la ritmica per tromba e trombone (Luigi Corrias e Pierandrea Congiu), in Moto perpetuo al violino (il già citato Melis), la Pastorale per corno (Luca Maria Leone), fino alla ripresa del Tema per contrabbasso (Simone Guarneri).
Conclusione con la suite op.8 Estancia (del 1943); una brillantissima performance dell'Orchestra del Lirico cagliaritano in stato di grazia, capace di passare con disinvoltura da violente sferzate ritmiche a slanci melodici, fino alla furiosa danza finale, accolta da applausi intensi e partecipati.
CAGLIARI, 6 aprile - Il secondo appuntamento (5 e 6 aprile) era dedicato al Nord America, a due figure chiave del Novecento statunitense, Aaron Copland e Leonard Bernstein. Del primo, la serata si è aperta con Inaugural Fanfare (1975), una commissione per la cerimonia d'inaugurazione di una scultura monumentale di Alexander Calder, La grande vitesse; dietro una forma semplice scorre un linguaggio armonico a tratti audace, intrecciato tra legni e ottoni e le loro singole sezioni (in bella evidenza, come lo sarà anche nei brani successivi in programma, la limpida intonazione della tromba di Vinicio Allegrini). Segue la suite Appalachian Spring (1944), con la sua speranza di una 'nuova frontiera' coltivata dalla sinistra americana negli anni della guerra antifascista; sul podio il direttore turco Cem Mansur (al suo attivo la prima mondiale di Veni Creator e la prima europea della Sinfonia n.4, due pagine di Arvo Part) ha 'raccontato' gli otto numeri della partitura con una aderenza assoluta alle indicazioni di Copland; da subito, rapisce la dinamica soffusa del Molto lentamente iniziale, come nell'Abbastanza veloce sa far riemergere l'eco folclorica delle danze dei violinisti di campagna. La prima parte del concerto si chiudeva con El salon Mexico; qui non è il luogo né basterebbe lo spazio per raccontare il legame che teneva unito Copland al Messico (basti ricordare che proprio a Città del Messico, nel 1932, nacque l'amore tra il compositore e il violinista Victor Kraft, il legame sentimentale più importante della sua vita). Lavoro, El salon Mexico, che sottotraccia possiede anche un significato politico (per i progressisti, anche d'Europa, il Messico degli anni '30 esprimeva il sogno di un socialismo internazionale, perchè – se pur vero che la rivoluzione messicana aveva lasciato dietro sé morti e una guerra civile – era nato uno Stato che riconosceva i diritti dei lavoratori, promuoveva una intensa vita culturale, non ultimo accogliendo l'esilio di Trockij). Mansur, con mano felice e assecondato dall'Orchestra con entusiasmo, guida le danze nella loro forma rapsodica, scandita da cadenze e sospensioni di tempo, e da una nutrita batteria di strumenti a percussione: tanti, per poterli qui nominare tutti.
Qualche perplessità mi rimane, invece, per la scelta fatta di affidare al narratore della Sinfonia n.3 Kaddish di Leonard Bernstein una traduzione in italiano mentre soprano, coro di ragazzi, coro misto eseguono la versione originale; non so quanto Luca Barbareschi (che indossava una kippah; a mia conoscenza, da indossare obbligatoriamente nei luoghi di culto, anche se i più radicali la portano sempre) conosca la musica (il suo sguardo incollato al volto del direttore in attesa degli attacchi lascia supporre non seguisse alcuna partitua), né perché il suo leggio non fosse posizionato più alto, costringendolo ad una lettura con capo chino. Di certo, la sua lettura (microfonata) appariva misurata e adeguata al testo. Partitura ricca di luci e di ombre, nata nel 1961 e revisionata nel 1977, divisa in tre parti e intessuta nel telaio di un testo scritto dallo stesso Bernstein (e dedicata “to the beloved memory of John F.Kennedy”) il quale spiegava in una lettera del 1963 alla sorella Shirley: “Collaborare con un poeta è impossibile in un lavoro così personale, come ho scoperto dopo un anno stressante di tentativi con Lowell e Seidel; così alla fine mi sono scelto io, poeta o non poeta”. In questa pagina complessa (che Stravinskij definì “grande magazzino musicale”) in cui il linguaggio sembra, quasi in una dimensione postmoderna, appropriarsi e sedimentare assieme forme del modernismo russo ed elementi armonici di derivazione impressionista, certo simbolismo con echi mahleriani e influssi del teatro di Broadway, Mansur tiene coese tutte le componenti, dall'Orchestra del Lirico al Coro di voci bianche del Conservatorio G.P. Da Palestrina di Cagliari (preparato da Francesco Marceddu), il Coro del Lirico (diretto da Giovanni Andreoli) e il momento solistico di una Fiorenza Cedolins che, seppure debole nel registro medio-grave, mantiene intatto il gusto, l'eleganza e la bellezza del suo timbro.
Poco pubblico, davvero troppo poco, per una serata così straordinaria.
Una considerazione al margine: ben visibile in scena un nuovo impianto microfonico: ecco, questi due concerti meriterebbero appieno un investimento, una produzione discografica. E vista la qualità delle due serate, non ci sarebbe nemmeno bisogno di editing. L'Italia, ma non solo, deve conoscere le qualità ed il livello che – coi direttori giusti – sa raggiungere l'Orchestra cagliaritana.
Sergio Albertini(Cagliari, 30 marzo, 6 aprile)