L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Guerre e denari

di Alberto Ponti

Per la seconda volta in due settimane sul podio dell'Orchestra Sinfonica Nazionale, il suo direttore ospite principale Robert Treviño offre alla platea una memorabile interpretazione di tre capolavori nati in terra americana, affiancato da una superlativa performance di Yulianna Avdeeva.

TORINO, 2 maggio 2024 - Alcuni anni fa ebbi tra le mani una lettera di Gian Francesco Malipiero, sincero ammiratore di Igor Stravinskij, il quale in tarda età, a proposito di un breve pezzo del compositore russo-americano che sarebbe stato eseguito da lì a poco a Venezia, non mancava di sottolineare, oltre alla curiosità artistica per l'opera finora mai ascoltata, un'altra curiosità più terra terra: 'Chissà quanti milioni si sarà fatto dare per l'occasione!'. In questa battuta risiede un aspetto non secondario della personalità di Stravinskij, e cioè il riuscire a trarre grandissima musica anche dalle circostanze commerciali più disparate. Esempio perfetto è la Sinfonia in tre movimenti (1942-45), il cui primo tempo, concepito in origine in veste di concerto per pianoforte e orchestra, nacque seguendo la via di un'ispirazione drammatica indotta dai tragici eventi del secondo conflitto mondiale in corso, sulla scorta della visione di un documentario sulle tattiche di 'terra bruciata' in Cina. Il secondo movimento ebbe invece origine da una commissione di musiche per un film sulle apparizioni mariane a Lourdes sceneggiato nientemeno che da Franz Werfel, nonostante la collaborazione fra Stravinskij e il produttore fosse destinata a non concretizzarsi. A tale materiale eterogeneo, sulla carta di difficile conciliazione, l'autore aggiunse in seguito un finale e creò un capolavoro. Non vi è nulla di maggiormente vicino a una tela dell'espressionismo astratto di una partitura come questa: se si eccettuano alcuni passaggi dell'Andante centrale, con arcate melodiche destinate a rimanere impresse nella memoria, tutto il resto dell'opera appare un collage di elementi eterogenei, uniti tra loro da una logica allo stesso tempo evidente e misteriosa, esattamente come in una tela di Pollock schizzi e grumi di primo acchito casuali finiscono per congiungersi una superiore e coerente armonia. Qui siamo oltre Le Sacre du printemps. Ascoltate il primo movimento della Symphony in three movements per venti volte e vi sarà difficile ricordarne a mente anche solo un breve spezzone, ma riconoscerete subito il brano e capirete che non può essere null'altro. L'esecuzione di Robert Treviño, per la seconda volta nel giro di due settimane sul podio dell'Orchestra Sinfonica Nazionale, è impeccabile e coinvolgente: la scansione ritmica perfetta si accompagna a uno scavo minuzioso sul timbro, con le filigrane dell'articolata scrittura stravinskiana impresse in un rilievo quasi visivo, sia che si tratti di esili passaggi cameristici sostenuti dal suono di una manciata di strumenti sia che le esplosioni dell'intera massa orchestrale producano un sommovimento della coscienza inquietante e terribile: non assistiamo alla catastrofe panica di una natura nemica ma alla distruzione organizzata e scientifica della moderna macchina bellica.

Legata al timore dell'avvento di un'era dominata dall'incubo delle nuove armi di annientamento collettivo ideate dall'uomo è pure la Doctor Atomic Symphony, ampia rielaborazione sinfonica che John Adams trasse nel 2007 da temi della sua omonima opera teatrale Doctor Atomic, suddivisa in tre parti dai titoli significativi: The Laboratory, Panic e Trinity. Sempre accostato a Philip Glass e Steve Reich, Adams pare nella produzione degli ultimi vent'anni il più propenso a seguire strade meno delimitate dai paletti di un rigido dogmatismo minimalista, con il recupero di esperienze legate alla grande tradizione europea declinate con personale gusto molto contemporaneo. Da un pezzo simile non vi è che da imparare, non fosse che per lo straordinario modo di trattare l'orchestra. Se la breve introduzione evoca violenti scenari postatomici e la sezione successiva è la stilizzazione di un brillante tempo di scherzo, la parte conclusiva (Trinity), con lo struggente e reiterato assolo della tromba, basato su quella che nell'opera è l'aria dello scienziato Oppenheimer tormentato dai rimorsi, si può annoverare tra i massimi traguardi in termini artistici della musica del primo quarto del nuovo millennio. La mano di Treviño, assai vicino per formazione e frequentazione ai maestri statunitensi, si sente eccome, ed è il vero valore aggiunto dell'interpretazione torinese. All'esattezza ritmica e timbrica già udita in Stravinskij, si aggiungono una lucentezza di suono che sfiora il puro edonismo: ottoni e legni scintillanti, percussioni che scattano al pari di un congegno ad orologeria senza perdere un secondo, archi che cambiano pelle di battuta in battuta tra asciutte staffilate di accordi e corpose note tenute che danno l'impressione di espandersi ai confini della materia.

Il medesimo gesto direttoriale innerva un ulteriore lavoro di notevole complessità quale la Sinfonia n. 2 The Age of Anxiety di Leonard Bernstein, eseguita nella seconda parte della serata nella revisione definitiva del 1965. Ispirata al poema di Wystan Hugh Auden pubblicato nel 1947, l'ampia pagina, strutturata in due parti e due serie di sette variazioni, completa il programma costituito da un'ideale triade di composizioni incentrate non solo sul tema della guerra ma anche legate da un sottile fil rouge per il fatto di appartenere ad autori che hanno goduto di successo e fama immediata al punto da influenzare stili e pensieri musicali delle loro differenti epoche più di altri nomi il cui percorso verso la gloria è stato più lungo e tormentato. Non è un caso che Adams, Bernstein e Stravinskij siano legati per nascita o naturalizzazione agli Stati Uniti, paese nel cui DNA convivono fianco a fianco tragedia e spettacolo, ragioni dello spirito e ragioni della remunerazione.

La partecipazione al pianoforte di Yulianna Avdeeva, tra le soliste di maggior interesse della generazione dei quarantenni di oggi, appone il sigillo a un concerto trionfale. La Avdeeva si destreggia tra le maglie della ramificata partitura con classe e disinvoltura, mettendo il proprio talento al servizio di uno strumento trattato a volte con estremo virtuosismo senza mai prevaricare l'intenzione di primus inter pares prevista da Bernstein. Un'elevata pulizia nel tocco, capace di produrre un suono ora di cristallina consistenza ma per nulla fragile (nel Prologo e nel Canto funebre), ora di travolgente passionalità ma sostenuto da un'innata eleganza (nell'impetuoso The Masque), è la chiave della sua performance, abbinata a una finissima sensibilità per il fraseggio, a un'intrigante chiarezza dell'articolazione ritmica, a una scelta timbrica personale e indovinata.

Le ovazioni entusiaste di un pubblico numeroso chiudono una serata da segnare con un punto esclamativo tra gli appuntamenti dell'odierna stagione.


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