L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L'ossimoro brahmsiano

di Mario Tedeschi Turco

Il terzo appuntamento del ciclo brahmsiano al Filarmonico di Verona si apre con la notizia della defezione del direttore designato Franz Schottky, sostituito da Francesco Ommassini. L'occasione è ottima per ascoltare Pietro De Maria nel Secondo concerto per pianoforte e orchestra.

VERONA, 3 maggio 2024 - Comincia con la notizia della defezione del direttore Franz Schottky il terzo appuntamento con l’integrale brahmsiana di concerti e sinfonie, organizzata dalla Fondazione Arena al Teatro Filarmonico. Rimpiazzato da Francesco Ommassini, da anni Maestro Sostituto e oggi anche segretario artistico della Fondazione, il programma ha proposto come da cartellone il Secondo concerto e la Terza sinfonia. L’occasione è stata ottima per riascoltare Pietro De Maria quale solista in un classico del concertismo romantico, «piccolo concerto per pianoforte, con un grazioso, piccolo scherzo», secondo le antifrastiche parole del suo autore, ovviamente invece ben conscio di aver posto in forma un capolavoro assoluto, forse il vertice dell’intero repertorio specifico, nel quale il mistero brahmsiano dell’equilibrio classicamente inteso fuso con il suo opposto dialettico, vale a dire lo scontro drammatico di stampo iper-romantico, plasma la forma perfetta della metamorfosi eternamente cangiante di temi e motivi, esposti, ripetuti, variati nel carattere, nella forma armonica, nell’iridescente palette cromatica dell’orchestrazione, a voler dire forse la parola ultimativa sull’ontologia della musica assoluta, quale figurazione astratta del Destino dell’uomo. A maggior ragione nella particolare scrittura del brano, nel quale il pianoforte non è l’individuo che lotta e s’impone sul mondo rappresentato dall’orchestra, secondo il modello beethoveniano, bensì una voce tra le tante diverse che abitano il cosmo, certo la più bella e malinconica, che nel mondo forse trova la propria trasfigurata identità dopo il flusso ininterrotto dei gesti espressivi diversi. Il che equivale a dire, metafore letterarie a parte, che un’attendibile esecuzione di questo Concerto deve essere in grado di rilevare nel dialogo fittissimo tra pianoforte e orchestra esattamente quelle rifrangenze significanti, nelle quali soprattutto il peso fonico dei due elementi posti in dialettica deve giungere nel perfetto equilibrio. Ed è quanto l’arte di De Maria è stata in grado di ottenere, nell’esecuzione, ottimamente affiatata con la massa strumentale guidata da Ommassini: in modo particolare abbiamo apprezzato la grande varietà dinamica che il solista ha offerto, ottenendo peso epico e aeree rêveries laddove il testo lo richiedeva, con tutta l’ampia gamma di sfumature intermedie che i due estremi posseggono. Un lavoro di assoluta precisione, quello di De Maria, in cui la gravità dei passaggi nei tre grandi periodi che compongono l’Allegro non troppo di apertura si è strutturata – giusta la variazione quale principio fondante – non solo nell’esecuzione tecnicamente brillantissima del decorso delle frequenze, ma appunto nel sapiente dosaggio delle sfumature dinamiche. L’agogica scelta, tendenzialmente lenta, è stata così funzionale a un fraseggio ben sintonizzato sull’elemento drammatico, che ha lasciato spazio, nell’Andante (e specificamente nella sezione Più adagio, in Fa diesis maggiore) a un’aura di pura contemplazione che ha esaltato al massimo la timbrica dei semitoni d’impianto. Un pianista virtuoso, De Maria, ma nel senso migliore del termine, laddove per perizia tecnica s’intende profondità di lettura e non fuochi d’artificio digitali. Ben ottenuto il dialogo con l’orchestra, evocativa nel solo del corno d’inizio, preziosa negli impasti dei legni, arricchita nel terzo movimento dal violoncello solista di Sara Airoldi, di musicalissima intensità. Da Maria ha incantato poi nel primo bis, l’Impromptu n. 2, D. 899 di Schubert, risolto con una digitazione “liquida” di irresistibile lirismo, in cui il jeu perlé ha fatto ancora udire le capacità virtuosistiche di uno strumentista davvero completo. Un Intermezzo,ancora di Brahms, ha chiuso la prima parte del concerto, salutato da autentiche ovazioni del pubblico.

Terza sinfonia, dopo l’intervallo: un’esecuzione di pregio, complessivamente migliore rispetto alla Seconda sinfonia ascoltata due settimane prima nel ciclo Brahms veronese. Ommassini ha badato al sodo, gestendo con perfetto anticipo gli attacchi, chiamando con sobrietà all’espressione nei momenti topici, non sempre bilanciando a dovere il peso degli archi rispetto ai fiati, a dire il vero (ma per chi scrive questo è un difetto cronico dell’orchestra veronese), però recuperando bene il finale del quarto movimento, con il giusto tono maestoso ma quieto, trasparente ma meditativo, in un gioco che diresti ossimorico perfettamente brahmsiano. E non è titolo di poco merito, questo.


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