Il germe e il pensiero
di Roberta Pedrotti
Si conclude in bellezza il cartellone della Filarmonica Toscanini con un concerto al Teatro Regio che spazia fra musica contemporanea, Puccini e Schumann sotto la direzione eccellente di Alessandro Bonato.
Leggi la recensione di Antonino Trotta del concerto con un programma in parte diverso (Beethoven invece di Del Corno)
Novara, concerto Bonato/Toscanini, 29/05/2024
PARMA, 28 maggio 2024 - A una settimana dall'apertura del Festival Toscanini, la ICO emiliana intitolata al grande direttore chiude la stagione con un colpo da maestro. Siamo, intanto, al Teatro Regio, il che, con tutto il rispetto per la bellezza della sala e la funzionalità degli spazi, porta rispetto all'Auditorium Paganini un sostanziale vantaggio acustico. Il programma, poi, abbina con sapienza il nuovo (Maggese di Filippo del Corno, commissione congiunta proprio della Toscanini con la Sinfonica “ex Verdi” di Milano), la ricorrenza storica (Capriccio sinfonico di Puccini) e il grande repertorio romantico (la terza sinfonia Renana di Schumann). E perché le buone intenzioni e i potenziali non restino sulla carta, sul podio c'è un grande direttore (Alessandro Bonato).
È senz'altro un'ottima cosa che due istituzioni condividano la commissione di musica nuova, così da tamponare il male che affligge la produzione contemporanea, vale a dire l'isolarsi del debutto, troppo spesso, come unica occasione d'ascolto. È chiaro che non tutto meriti una seconda occasione, ed è sempre stato così, ma in Italia sembra ormai la regola che – a prescindere dall'interesse e dal successo – per una prima assoluta non si pensi nemmeno a una ripresa e a una circolazione. Qui abbiamo avuto non solo due date in due città, ma anche due interpretazioni diverse con diverse orchestre e direttori. Della prima milanese ha già scritto Luca Fialdini [Milano, Concerto Quatrini/Tsujii/Sinfonica di Milano, 12/04/2024]. A Parma spicca in evidenza una costruzione in cui colore e tema si identificano, delineando via via una rete di legami e sviluppi materici, come un brodo primordiale, un chaos che comprende il kosmos prima di chronos, prima che il logos ne espliciti una forma già latente. Un ordine organico, il tempo, la logica del linguaggio sono come sospesi all'interno della materia timbrica e della sua articolazione nei pesi e negli equilibri sonori, in piena corrispondenza con gli intenti dell'autore, che fa della pratica agricola del campo lasciato ciclicamente a riposo la metafora di un periodo di stasi creativa in cui l'impegno in altre attività non è, però, infecondo nel ritorno alla composizione. Una riflessione puramente musicale, tutta compresa nella pura materia sonora, eppure dimostrazione di come l'arte rifletta l'attualità trascendendo la volontà stessa dell'autore, che racconta una sorprendente coincidenza fra la metafora scelta del maggese e immagini dolorose dei conflitti in atto.
L'immagine della materia a riposo ma pronta a sbocciare si abbina perfettamente anche al Capriccio sinfonico di Puccini, saggio di studi che sembra proclamare quella predestinazione al teatro poi esplicitamente dichiarata (“Il Dio santo mi toccò col dito mignolo e mi disse: 'Scrivi per il teatro, bada bene, solo per il teatro'. E ho seguito il Supremo consiglio”). Non è solo il passo più eclatante, quello che diventerà presto l'incipit della Bohème, a parlare di teatro, non è solo quell'attacco dell'Andante moderato sostenuto che sembra già immerso nell'atmosfera di Manon Lescaut. Tutto il Capriccio respira di una teatralità tanto prepotente da farsi insidiosa, come se ogni cellula pretendesse una sua vita immediata sul palcoscenico. E qui sta la difficoltà per il direttore, che potrebbe adagiarsi nella fin troppo facile sottolineatura del pathos e dell'invenzione (non solo) melodica. Insomma, potrebbe abboccare all'esca del melodrammatico, oppure allontanarsi con troppa decisione, arrivando a prosciugare quella vocazione pulsante nella scrittura del giovane Giacomo. La questione, peraltro è la stessa che si pone di fronte all'opera: assecondare sentimentalismi di tradizione (il cosiddetto “puccinismo”), accentuare tratti sinfonici e novecenteschi, puntare a un estremo o all'altro? Per fortuna Bonato è un direttore assai abile nel dosare gli ingredienti e, come aveva calibrato le materie di Del Corno, ora si destreggia nel Capriccio lasciando respirare i temi come personaggi in cerca di un palcoscenico (l'Autore in vece ce l'hanno eccome!), ma già ben a suo agio a interloquire fra quelle voci strumentali che dell'opera a venire saranno sempre nerbo e profondità drammaturgica. Il citato tema della Bohème vive così, per esempio, nella perfetta ambiguità della sua autonomia sinfonica e del presagio d'una soffitta parigina. L'orchestra coglie perfettamente la cifra impressa dalla bacchetta, il suono è ben tornito, l'espressione vivida e non superficiale.
Le premesse per la Renana di Schumann sono ottime e il risultato non delude. Anzi. La cristallina chiarezza dell'articolazione, degli intrecci, delle polifonie è un prerequisito forse non sempre scontato, forse talvolta un fine e un obiettivo più che uno strumento quale appare in questo caso, in una lettura dialetticamente costruita fra le polarità della psiche schumanniana. Ecco che dal Lebhaft (vivace) del primo movimento a quello dell'ultimo si dipana uno sviluppo perfettamente costruito, nel quale germi (quasi una tabe) insinuati in apertura arrivano a maturare infine, senza sciogliere le tensioni e compiendone semmai la piena espressione. Tutto è perfettamente logico nel suo essere vibrante, teso, pienamente e non superficialmente romantico. Lo stesso gusto popolare del Ländler dello scherzo, così come lo spirito di danza che riemerge nel finale, si trova sapientemente in bilico fra festosa ingenuità e raffinato, nostalgico filtro intellettuale. Il passaggio senza soluzione di continuità dal quarto (Feierlich, solenne) al quinto movimento (Lebhaft, vivace) mostra pure questo intreccio indissolubile ma chiaro nel gesto del concertatore, un gesto che nulla concede al compiacimento estetico per puntare solo alla sostanza musicale. In Schumann ogni espressione comprende il suo contrario senza confusione, ma in un moto dialettico fra tesi e antitesi verso una sintesi in perenne divenire. Alla nobile semplicità si sposa un'inquieta grandezza, la nobiltà è grande e la semplicità inquieta. La danza contadina e il corale non solo convivono, ma sono necessari l'uno all'altra. Tutto scorre, fra le acque cangianti ma terse del Reno, eppure il fiume è sempre quello: muta, si trasforma, porta a compimento nel suo cammino ciò che già si intravedeva alla fonte e che via via prende forza. Non si perde un dettaglio nel respiro fluido impresso da Bonato con consequenziale varietà, lucidità e profondità di visione, sicurezza ed efficacia di gesto, energia e sensibilità d'espressione.
Il successo è vivissimo e se da un lato conferma il potenziale qualitativo della Toscanini, dall'altro fa sperare ardentemente di rivedere presto Bonato al Regio (e non solo).