L'enigma dell'Omaggio
di Roberta Pedrotti
La riproposta della cantata composta da Rossini per il Congresso di Verona del 1822 offre alcune prove di pregio, ma pone anche interrogativi sulle esigenze esecutive e stilistiche di questo repertorio.
PESARO, 15 agosto 2024 - Le cantate celebrative costituiscono una parte non indifferente della produzione rossiniana. Partiture d'occasione, concepite per un'unica esecuzione, non esigevano un'originalità assoluta, rendendosi piuttosto terreno per autoimprestiti, rielaborazione di materiali preesistenti, invenzione in vista di lavori futuri. Forse creava poco, almeno ex novo, ma data l'importanza di committenti, destinatari, situazioni e spesso esecutori utilizzava musica di alta qualità, con un registro espressivo sempre elevato. Gli interventi sono, poi, sempre di mano di un grandissimo e sovente rappresentano fasi di passaggio verso nuovi capolavori (nel Vero omaggio fanno già capolino elementi di Semiramide).
Purtroppo, fuori Pesaro è assai difficile poter ascoltare questi frutti del genio rossiniano: d'altra parte, se i cartelloni sono ancora così refrattari ad accogliere stabilmente opere fuori dalla solita manciata, è fallace speranza ipotizzare una qualche ricorrenza della Riconoscenza o delle Nozze di Teti e di Peleo nei programmi concertistici. Quindi, nonostante la breve durata e le esigenze sceniche limitate o nulle, il Rossini Opera Festival ha anche la responsabilità di proporre con mezzi adeguati partiture spesso assai impegnative sul piano vocale, oltre che su quello stilistico.
Nel caso del Vero omaggio, la pessima fama che da noi accompagna il principe di Metternich, reo di aver definito l'Italia solo “un'espressione geografica”, potrebbe almeno essere addolcita dal suo buon gusto musicale di appassionato sostenitore di Rossini. Così, il Nostro fu il protagonista delle celebrazioni musicali per il Congresso di Verona del 1822 come a Vienna nel 1815 lo era stato Beethoven. Nel programma, oltre alla cantata La Santa Alleanza eseguita all'Arena, spicca Il vero omaggio, dato al Filarmonico e offerto “dalla R. Camera di Commercio, Arti e Manifatture e dalla R. Città e Provincia di Verona” (come cambiano in tempi!). Si trattò sostanzialmente di una rielaborazione della cantata napoletana La riconoscenza per un cast di tutto rispetto, che schierava anche il castrato Giovan Battista Velluti e il basso Filippo Galli.
La compagnia schierata al Teatro Rossini, nondimeno, appare di livello commisurato alla bisogna: Sara Blanch è uno dei più interessanti soprani di coloratura della nuova generazione, Victoria Yarovaya è volto noto al Festival, impegnata in questi giorni anche in Ermione, Ruzil Gatin è sempre stato disinvolto nelle tessiture acutissime e a Pesaro ha già cantato la parte equivalente nella Riconoscenza, il giovane Alejandro Baliñas aveva già mostrato una vocalità degna d'attenzione nella Messa di Ravenna. Ma proprio il caso del basso galiziano è emblematico: se la lingua latina e l'idea di liturgia sembravano averlo messo sull'attenti nel dosare gli accenti, nel caso del pastore Elpino, invece, il registro è frainteso e portato a una comicità impropria. La cabaletta “La diva m'intese” è, sì, brillante, ma non può esserlo alla maniera di un Signor Bruschino: è, invece, l'infervorato entusiasmo dell'ispirato poeta pastore. Il riferimento è l'Arcadia, è la poesia di Teocrito, aspetto che è purtroppo sfuggito all'interprete. Nel caso di Yarovaya invece abbiamo un altro tipo di problema, vale a dire l'associazione automatica fra castrato (e ruolo maschile) e registro di contralto o mezzosoprano. Ad Alceo, però, questa vocalità sta stretta e “Al conforto inaspettato” (che nella versione della Riconoscenza a Pesaro era stata affidata la prima volta a Mariella Devia) rappresenta uno scoglio un po' troppo arduo, risolto con professionalità ma senza l'alto spolvero virtuosistico che esigerebbe. Per contro, Sara Blanch (Argene) si trova fra le mani una cavatina, la polacca “De' gigli nel candor”, di minor rilievo, benché piena di grazia, lucentezza, fine virtuosismo. Partire a freddo con il micidiale, iperuranio terzetto (quasi un'aria di Fileno con pertichini) “In giorno sì bello” è cimento non da poco anche per un tenore abituato ai ruoli Rubini (primo interprete della Riconoscenza, peraltro) come Gatin, che parte con slancio e convince comunque soprattutto nella cavatina del Genio dell'Austria “Debellai nemici alteri”, in cui si evidenza il maggior corpo acquisito nei centri, oltre all'accento altero contrapposto a quello elegiaco del pastore poeta.
Proprio la sortita di Fileno, con arpa e corno a guisa di strumenti concertanti, mette in evidenza punti deboli dell'Orchestra Filarmonica Rossini nei fiati (ma non nei flauti), vale a dire proprio nelle sezioni che una partitura d'ambientazione pastorale sollecita con particolare evidenza. Ciononostante, si riesce ad apprezzare il buon gusto della bacchetta di Giulio Cilona, che tratta la partitura con affettuosa attenzione cercando sempre di definirne l'atmosfera poetica, gli equilibri dinamici e un'articolazione agogica fluida e naturale. Anche il coro del teatro della Fortuna di Fano preparato da Mirca Rosciani, al gran completo come organico, si impegna al massimo delle proprie possibilità per rendere giustizia alle pagine brevi ma non trascurabili che gli sono affidate (da menzionare, almeno, “Di quel soglio di tue glorie” per sole voci femminili, tratto da Ricciardo e Zoraide).
Nel pomeriggio del giorno di Ferragosto, chi può mai infilarsi in teatro per rinverdire l'omaggio organizzato da Metternich e dalla Camera di Commercio di Verona per l'imperatore austriaco? Bisogna essere rossiniani di fede pura e incrollabile, ma non siamo pochi a seguire con attenzione, applaudire i musicisti e domandarci quale dispiego di forze e quanta consapevolezza retorica richieda questa parte fondamentale della produzione rossiniana.