L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Bellezza senza confini

di Mario Tedeschi Turco

Il tour della Sächsische Staatskapelle Dresden diretta da Daniele Gatti offre al pubblico veronese una serata di altissimo livello, con picco memorabile nell'Intermezzo di Manon Lescaut inserito come fuori programma.

VERONA, 13 settembre 2024 - Dopo Torre del Lago e Merano, il tour della Sächsische Staatskapelle Dresden diretta da Daniele Gatti tocca Verona e il Teatro Filarmonico, secondo appuntamento del «Settembre dell’Accademia» (che al momento sta segnando un 30% di presenze in più rispetto all’anno scorso: segno che l’emergenza Covid, che aveva tagliato drasticamente l’afflusso di pubblico della rassegna - per solito da tutto esaurito costante - è definitivamente conclusa), nel segno della Verklärte nacht di Schönberg e della Sinfonia n. 1 di Mahler.

Partiamo da un rilievo oggettivamente semplicissimo: l’antica orchestra di Dresda possiede un livello di precisione e virtuosismo trascendentali, che la pongono senza ombra di dubbio tra le migliori compagini del mondo, con pochissime eguali e con nessuna superiore. Tanto basti per qualificare il dettaglio tecnico, in cui soprattutto il bilanciamento delle sezioni è apparso perfetto per volume, plasticità e proiezione sonori, in modo tale da prospettare all’ascolto sia lo spazio globale dell’organismo sinfonico, che le singole più minute parti dell’insieme: ogni segmento motivico, ogni inciso tematico, ogni sfumatura timbrica sono giunti con trasparenza cristallina e peso calibrato con esattezza, senza per questo far perdere il senso architettonico della totalità. Merito ovviamente anche della concertazione di Gatti, il cui gesto costantemente in anticipo ha dominato l’esecuzione in ogni momento, gli occhi delle prime parti a seguirlo con attenzione costante, a rispondere con competenza somma ad ogni sollecitazione di braccia, sguardo e corpo: un’intesa già ottima, dalla quale attendere davvero esiti di importanza assoluta. Lo splendore diresti edonistico del suono di Dresda è stato alla pari sia nei soli archi di Schönberg che nella vasta tavolozza di Mahler, nel mentre che dal punto di vista poetico è forse lecito operare qualche distinguo, avanzando pur timide obiezioni che sfumino appena tanta obiettiva magnificenza. La prima considerazione riguarda Verklärte nacht, nella quale hanno forse latitato l’abbandono lirico, il fraseggio espressivo, il senso deliquescente del sogno d’amore sovrumano: pur optando per un tactus largo, e ad onta di quel magistero nel dettaglio analitico cui sopra si accennava, l’essenza postwagneriana e postbrahmsiana dell’orchestrazione del 1943 – da intendersi nella tensione ultimativa verso l’esplicitazione totale del pathos – ci è sembrata mancare un po’, come se la scelta di Gatti andasse in una direzione più strutturalista che estatica. Si badi: è una scelta del tutto lecita (chi scrive ha ascoltato dal vivo sia Sinopoli che Boulez andare in questa medesima direzione), e certo realizzata come meglio non si potrebbe, e pur tuttavia non del tutto convincente per chi pensi allo Schönberg giovane come naturale evoluzione, in senso décadent, della linea storica sopra citata.

Il «sipario e fanfara» del Titano, se sono stati strepitosamente restituiti con tutti i colori possibili, con un grado di nitore che credevamo possibile solo all’ingegneria acustica dei 24bit in HI-Res, qua e là ci sono anche parsi avari di idiomaticità (terzo movimento, contrabbassi e clarinetto immacolati assai lontani dal suono popolaresco dello shtetl chiaramente evocato), oppure classicamente troppo composti nel fraseggio, rigoroso e controllatissimo, laddove, ancora, a noi sembra che il gesto survoltato, carico di romanticismo, dovrebbe sciogliersi con maggiore energia patetica, gioia del canto, esaltazione sorgiva (primo movimento, la melodia desunta e ampliata da Ging heut' morgen übers Feld, n. 2 dei Lieder eines fahrenden Gesellen). Si tratta ben vero di piccole cose, che nulla tolgono all’esito maiuscolo della prova di orchestra e direttore, e forse hanno a che fare più che altro con gusti e vissuti personali di chi identifica la musica di Mahler con l’approccio di un Bernstein o di un Solti, piuttosto che con la linea Abbado cui pare di poter ascrivere l’arte di Gatti. Che, lo ripetiamo, è di assoluto valore, di cui non dimenticheremo mai, per esempio, la brillantezza dell’accordo alla fine della Sinfonia, con il tremolo degli archi sul rullo di timpani, con triangolo e colpo di piatti, mentre gli ottoni acuti vengono raddoppiati all’ottava semplice e doppia da violini, flauti e ottavini: un momento di splendore che Gatti e la Dresda hanno restituito con una sprezzatura che ha dato forma e senso a una bellezza senza confini, i timbri a un tempo miracolosamente fusi e distinti come solo una compagine e un concertatore di categoria superiore riescono a ottenere.

Ad alto grado di coinvolgimento emotivo, per contro, è giunto l’unico bis concesso a furor di teatro entusiasta: l’Intermezzo di Manon Lescaut, a omaggiare Puccini nel centenario della morte, e restituito, questo sì, con totale abbandono elegiaco, con una risonanza che avresti detto epica, a tal punto si è fatta carico del dolore straziante tessuto nel cromatismo dell’impianto e nei suoi continui passaggi da maggiore e minore. Memorabile.


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