Mater dolorosa
di Luca Fialdini
La XXIII edizione di Anima Mundi inizia con un eccellente battesimo nel segno dello Stabat Mater di Dvořák
PISA, 10 settembre 2024 – Nelle parole del direttore artistico Trevor Pinnock, lo Stabat Mater è il fil rouge che lega gli eventi della XXIII edizione di Anima Mundi, la rassegna di musica sacra dell’Opera della Primaziale Pisana. È naturale quindi che il concerto d’apertura sia dedicato proprio alla sequenza nella versione musicata da Antonín Dvořák.
La musica sacra occupa una parte significativa del catalogo del compositore boemo, ma è molto meno nota dei lavori strumentali e sinfonici per almeno due motivazioni obiettive: questo repertorio è – colpevolmente – poco presente nei programmi concertistici e Dvořák si è avvicinato relativamente tardi alla composizione sacra, iniziando il proprio percorso con lo stesso Stabat nel 1876.
Questa folgorazione sulla via di Damasco si lega in modo indissolubile alla biografia del compositore e il clima della pagina ben testimonia l’evento luttuoso che ne ha segnato i natali: cinque mesi prima di iniziare la stesura Dvořák è colpito dalla perdita della figlia Josefa a soli due giorni dalla nascita. L’ottimo testo di Daniele Spini per il programma di sala sottolinea correttamente come l’impulso biografico sia stato fondamentale tanto nell’ideazione quanto nel completamento del lavoro, dato che dopo una prima interruzione Dvořák risolse di ultimare l’orchestrazione dopo la morte di altri due figli (Růžena, undici mesi, e Otik, tre anni). Lo Stabat Mater è un grido di dolore lucidissimo in grado di condurre alla contemplazione; in questo passaggio logico è contenuto tutto il significato della musica sacra dvořákiana perché l’elemento più importante – e in qualche modo scatenante – è un’intensa spiritualità raggiunta attraverso l’esercizio cosciente della tecnica.
A questo proposito, la composizione pone due problematiche tecniche molto interessanti;
la prima è quella della struttura. L’organizzazione delle sezioni nasce direttamente da una suddivisione del testo leggermente diversa da quella usuale (si pensi a Pergolesi o a Rossini) e si articola in dieci numeri chiusi indipendenti l’uno dall’altro; si è sempre sottolineato come in due ore di musica non compaiano melodie ricorrenti, con l’eccezione dell’analogo materiale tematico presente nel primo e nell’ultimo numero per creare un senso di Ringkomposition, cionondimeno esistono aspetti ulteriori. Per garantire coesione lungo tutto l’enorme arco del suo Stabat, Dvořák ha selezionato precise strategie cominciando da una forte unitarietà stilistica (quindi sì dieci numeri autonomi, ma non dieci pezzi) ma soprattutto ci sono moltissimi elementi ricorrenti: niente Leitmotive o Grundthemen, ma dei gesti, dei ritmi, degli intervalli e delle tecniche che compaiono con altissima frequenza nella partitura rendendola di fatto un discorso molto più organico di quanto lo si consideri usualmente. Vale la pena di sottolineare l’impiego estensivo – per non dire ossessivo – del pizzicato, adoperato sia in senso coloristico sia percussivo (notare la raffinatezza dei due si delle sole viole che chiudono lo “Stabat Mater dolorosa” o la sovrapposizione di pizzicato e timpani nel “Fac, un portem Christi mortem”) così come l’utilizzo espressivo dell’urto di seconda così frequentato in queste pagine, così come il disegno con la nota di volta inferiore che poi scende di una terza, e ancora ritmi puntati o scansioni di due semicrome e croma. Parlando di gesto, invece, forse il più comune è il procedimento – per grado congiunto o con alcune terze – che sale per poi tornare indietro; viene introdotto a battuta 35 del primo numero e attraverso varie mutazioni non abbandonerà mai più la partitura: una prima trasfigurazione avviene solo due pagine dopo nell’arpeggio pizzicato (di nuovo) delle viole e successivamente è ereditato con licenza dagli strumenti a fiato, ma poi si evolve nei gruppi di sei crome nel “Quis est homo” fino a ripresentarsi nel tema pastorale del “Tui nati vulnerati”; altrettanto scoperta la sua presenza nel successivo “Fac me vere tecum flere” in cui è proposto prima dalla coppia di oboi e poi alternativamente – in originale o nell’inversione – dai primi e secondi violini (il coro le propone entrambe contemporaneamente), con un’apparizione davvero drammatica nel penultimo numero, “Inflammatus et accensus”, in cui il medesimo disegno viene proposto con due scansioni ritmiche differenti. Non intendiamo dilungarci ulteriormente su questi aspetti, ma riteniamo che gli esempi qui appena accennati siano una sufficiente testimonianza di come questo lavoro possegga un grado di complessità inatteso, tale da meritare un’attenzione particolare.
L’altra questione strettamente tecnica è l’approccio di Dvořák all’argomento sacro: più che personale, è del tutto coerente con la sua produzione. Se la ritualità chiesastica della partitura guarda senz’altro verso Italia, Austria e Germania, in particolare con i suoi episodi di stile severo, è fortissima la presenza di idiomi locali che affiorano continuamente tra le pagine dello Stabat, quasi ad ammantare la tragedia con una malinconia che reca con sé il ricordo di colori, ritmi e riti del villaggio di campagna. Si badi a questo: il ricordo dell’oggetto, non l’oggetto in sé. Se in altre occasioni Dvořák ha inserito l’oggetto folkloristico nella propria musica, in questo caso ne è presente solo la memoria che è sufficiente ad evocarne l’inconfondibile profumo. Il risultato sono le sonorità fresche intrise di nostalgia capaci di mitigare un dolore che, pur non potendo avere consolazione, è voce di intimità raccolta, di affetto e dolcezza. Non è difficile rintracciare vestigia musicali boeme in cadenze di danza (la cadenza finale di “Fac me vere tecum flere”), in incatenamenti armonici e soprattutto in peculiari trattamenti melodici: a questo proposito, è impossibile non fare riferimento alla cellula generativa del “Fac, ut ardeat cor meum”. Non è vero che questo Stabat smentisce l’immagine etnica e nazionalista di Dvořák perché questi aspetti sono assolutamente presenti, tuttavia sono inseriti in modo assai meno netto rispetto ad altre circostanze.
Difatti la fusione tra condotta internazionale e accenti locali trova ampia sottolineatura nella direzione a quattro mani toccata in sorte a questa esecuzione. Trevor Pinnock, pur avendo curato il lavoro di concertazione, non ha potuto essere presente a causa di positività al covid ed è stato sostituito da George Pehlivanian; questi ha dimostrato fin da subito un buon affiatamento con i complessi dell’Orchestra e Coro Filarmonici Sloveni, proponendo una lettura asciutta e davvero aderente al dettaglio della partitura. Si segnala anche una buona gestione della difficoltosissima acustica della Cattedrale. A questo proposito, forse nella conclusione qualche passo poteva essere più calibrato, ma si tratta di inezie non meritevoli di considerazione. Di eguale livello orchestra e coro, per i quali è possibile formulare le medesime considerazioni: splendida compattezza unita a una invidiabile pulizia del suono – per il coro, anche in quelle insidiose fioriture di “Virgo virginum praeclara” – in cui è udibile la tensione emotiva di una ricerca spirituale attraverso il dolore. L’orchestra si segnala anche per il buon baricentro individuato fra i due poli dello stile severo e della memoria folklorica, fra l’austerità degli ottoni e il pedale nostalgico dei legni.
Di livello anche il quartetto solistico, in cui purtroppo si è resa necessaria una sostituzione di altro tipo: come è noto, lo scorso mese è venuto a mancare il tenore australiano Steve Davislim, che avrebbe dovuto cantare proprio in questa produzione e alla cui memoria è dedicato il concerto stesso. Bene Simona Šaturová, il cui timbro sopranile con sicurezza anche nei quartetti con coro (il vibrato è magari un po’ troppo operistico per questo tipo di repertorio), mentre il contralto Sasha Cooke sfoggia un colore piacevolmente umbratile e si segnala per la bella intelligenza musicale che brilla in particolare nel solistico “Inflammatus et accensus”. Maximilian Schmitt, vocalità non eccessivamente chiara e fraseggio curato, si dimostra davvero adatto per l’occasione – tenendo anche conto del fatto che in questo titolo il tenore canta davvero molto – registra una prova più che positiva come l’ottimo basso Georg Zeppenfeld, dotato di un’emissione generosa ma sotto il suo totale controllo, riuscendo a produrre anche dei piani piuttosto belli e ben appoggiati.
Per Anima Mundi la XXIII edizione, che già si segnalava per il programma di particolare interesse, inizia nel migliore dei modi e auguriamo si tratti solo del primo, felicissimo, passo.