Glagolitsa
di Luca Fialdini
Anima Mundi si congeda con due titoli in prima esecuzione nella storia della rassegna, con una produzione che lega Pisa, Brno e Ostrava
PISA, 27 settembre 2024 – Con l’ultimo appuntamento della XXIII edizione di Anima Mundi si ribadiscono due costanti di questa rassegna, cioè la selezione di un repertorio poco frequentato (per lo meno a sud delle Alpi) e produzioni di alto profilo, elementi evidentissimi nella proposta della Hora tří světel («Montagna delle tre luci») di Bohuslav Martinů e nella celebre Glagolská mše («Messa glagolitica») di Leoš Janáček.
Entrambi i lavori hanno abbastanza punti di contatto da conferire al programma una notevole organicità, caratteristica sottolineata dal comune sottobosco di folklore e radici etniche, una polla a cui Martinů e Janáček attingono con generosità ma attraverso differenti prospettive; mentre il primo contempla con ogni evidenza l’esperienza del cristianesimo, per non dire della fede tout court, il secondo scrive una messa dal punto di vista di un ateo consapevolissimo della propria posizione: come ricorda il bel testo di Daniele Spini, al critico che ascriveva la Glagolitica a un «vegliardo credente», Janáček rispondeva con il perentorio «Non vegliardo! Non credente! Giovanotto!». Eppure, anche in quella che può apparire una discrepanza inconciliabile esiste un collegamento più che interessante fra le due composizioni e cioè la ricerca di una propria dimensione spirituale da parte di entrambi gli autori, pur partendo da due posizioni non proprio sovrapponibili.
È un delitto che la Montagna delle tre luci sia così poco eseguita. Di certo, parlando almeno per l’Italia, ha un peso negativo la lingua ceca, ma nella sua compattezza e nella sobrietà di mezzi – coro maschile, organo, uno o due solisti e una voce recitante – questa cantata racchiude una fattura squisita, peraltro dalla grande potenza comunicativa che si raggiunge in virtù di un’agile concezione drammaturgica. L’opera combina quattro strati testuali, ossia passi da In the steps of the Master di Henry Vollam Morton, citazioni (anche parafrasate) dai Vangeli di Luca e Matteo, della poesia popolare ceca dalla raccolta National songs of Moravia, newly collected di František Bartos e un proprio testo. Cucendo insieme queste quattro fonti, Martinů compone un libretto di sorprendente coesione, ricco di situazioni evocative che attendono solo il soffio vitale della musica e in effetti nel gesto accurato di Marek Rajnoch sostiene magistralmente l’illusione del clima perturbato e denso di tensione del primo intervento del coro.
La partitura richiede la presenza di due solisti rubricati come tenore e basso, mentre in questo caso curiosamente entrambi i concisi ruoli sono sostenuti dal solo Tomáš Badura: sul programma di sala è indicato come tenore, tuttavia il timbro segnatamente più scuro e la bella apertura verso il registro grave, sostanzialmente da baritenore, gli offrono la possibilità di eseguire in modo corretto gli incisi previsti per ambedue i solisti; molto centrato Vítězslav Šlahař a cui è riservato il ruolo, senz’altro breve ma tutt’altro che secondario, della voce recitante, una sorta di historicus (o, per i bachiani ferventi, di evangelista non cantante) che ha il compito di creare raccordi tra le diverse sezioni della cantata. Infine, più che pregevole la parte dell’organo affidata a Petr Čech e caratterizzata dalla stessa netta precisione che si ritroverà nel pirotecnico brano solista della Glagolitica.
Quest’ultima è senza alcun dubbio la parte più succulenta del programma, che peraltro consente di ascoltare il Coro Filarmonico Ceco di Brno al gran completo, dopo il primo assaggio proposto dalla sezione maschile nella cantata di Martinů. La compagine corale è la grande protagonista della Messa glagolitica almeno quanto lo è l’Orchestra Filarmonica Janáček di Ostrava, vantando peraltro una presenza numerica di tutto rispetto.
Il Coro di Brno, ben preparato da Petr Fiala, se nella Montagna delle tre luci si conforma all’impostazione austera di una composizione tradizionale nella scrittura e non convenzionale nell’ideazione, è pur vero che nella Glagolitica si concede ampi squarci luminosi, screziati da inquietudini e passaggi nervosi; è ammirevole come il coro riesca a restituire all’ascoltatore il tortuoso viaggio spirituale dell'autore con le stesse cura e compattezza con cui interpreta la propria parte intrisa di inattese complicazioni ritmiche come di ispidi fraseggi sillabici, firmando un’esecuzione impeccabile sotto ogni punto di vista.
L’orchestra è chiamata a sostenere un prova dall’elevatissima difficoltà, anche solo limitandoci a osservare quanto sia straripante l’aspetto sinfonico nel più celebre lavoro sacro di Janáček, un’intricata perifrasi solo per non parlare di messa sinfonica. Non è tutto immacolato: nella scrittura impiccata degli archi qualcosa di lievemente calante ogni tanto appare (si potrebbe discutere all’infinito se l’autore ne avesse tenuto di conto fin dall’inizio oppure no) e le trombe non prendono nel modo migliore lo Svet, ma di fronte a quanto realizzato sotto al Cristo pantocratore queste non sono che due note a margine. Di solito ci si limita a osservare come l’orchestra della Glagolitica sia impiegata per famiglie di strumenti; è vero, ma questa esecuzione chiarisce come Janáček non abbia concepito un’orchestrazione a compartimenti stagni, piuttosto una divisione per famiglie in cui avvengono sovrapposizioni e mascheramenti di timbri. Questo modo di procedere ha anche l’evidente obiettivo di evitare qualsiasi effetto patchwork nel dato percettivo, scopo a cui concorre attivamente anche la presenza di gesti e motivi che trafiggono l’intera partitura. La Filarmonica di Ostrava è eccellente nel sottolineare i meccanismi dietro alle scelte di strumentazione, così come lo è nel mantenere quel nitore caratteristico di Janáček che consente di apprezzare la simultaneità di eventi sonori, serenamente a-gerarchici, che caratterizzano le sue pagine orchestrali.
Si può definire ben più che consapevole la lettura fornita da Gábor Káli, tesa a scandagliare le profondità di una composizione dalle evidenti complessità di interpretazione in senso artistico, mistico, spirituale e simbolico. La direzione di Káli è così controllata, così netta, così rigorosa da far scaturire un’esecuzione che più naturale di questa non si potrebbe; la scelta di un richiamo alla natura non è casuale, perché la spontaneità acquisita da diversi eventi è tale da far davvero pensare a fatti della natura e quindi tangibili richiami a quel panteismo che fa parte della visione mistica del tutto personale di Janáček. Gábor Káli, oltre a trovare un efficace equilibrio fra la natura corale e quella prettamente sinfonica della Glagolitica, ha una cura particolare per le combinazioni ritmiche impiegate dal compositore in modo davvero originale: per non fare che due esempi, si richiama l’uso delle sincopi che nel tempo in 8/4 dell’Agneče božij restituiscono il 6/8 di una pastorale e che nella conclusiva Intrada creano l’illusione di una continua alternanza di tempi mentre in realtà tutto è nel segno di un Moderato in 3/2. Da notare come Káli non abbia ceduto alla tentazione di scatenare le enormi masse di orchestra e coro, per almeno due buone ragioni: la prima è che l’acustica della Cattedrale non avrebbe retto impastando tutto, l’altra è che Janáček non richiede numeri importanti per il gusto del baccano ma per necessità di espressioni e di timbri; ecco quindi lo scavo intimo nel delicato incipit dello Sláva come dello Svet, o ancora della meravigliosa sezione centrale del Věruju. Molto bene anche la valorizzazione della particolare concezione di questa messa che – nonostante la struttura – è del tutto differente dalle più note composizioni sacre di area cattolica e luterana, dato che getta luce sul particolarissimo trattamento del quartetto solista: come nel caso di Martinů, anche in queste pagine ai solisti si affidano incisi più o meno estesi e pure con un’evidente predilezione per le voci acute, dato che a contralto e baritono è concesso uno spazio parecchio limitato (nelle parole di Janáček, soprano e tenore sono rispettivamente un angelo-fanciulla e un alto prelato). Maiuscola la prova del soprano Alžběta Poláčková, dotata di un fraseggio curatissimo al quale abbina una felice gamma di colori e azzeccate messe di voce, così come di alto livello è anche quella del tenore Aleš Briscein: titolare di una parte dalla scrittura impervia, Briscein riesce a far fronte alle numerose avversità con timbro limpido e squillo brillante. Il baritono Jiří Přibyl si deve accontentare di pochi interventi e il mezzosoprano Michaela Zajmi ne ha persino meno, tuttavia si riscontra un esito più che positivo anche per loro.
Cala così il sipario sulla XXIII edizione di Anima Mundi, una delle più riuscite degli ultimi anni e che – se possibile – aumenta le aspettative per il futuro della rassegna.