Rachmaninov in cattedra
di Antonino Trotta
Lingotto Musica inaugura la stagione 24/25 con un magnifico concerto che vede protagonisti Alan Gilbert e gli ottimi complessi della NDR Elbphilharmonie Orchester: prima dell’eccellente Quarta Sinfonia di Čajkovskij, Yefim Bronfman sale in cattedra per un’esecuzione magistrale del Terzo Concerto di Rachmaninov.
Torino, 18 ottobre 2024 – Ci sono occasioni che si presentano poche, pochissime volte nella vita. Come sempre, per coglierle, bisogna essere nel posto giusto, al momento giusto. Il momento, purtroppo per chi legge ora, era ieri; il posto per chi si fida le nostre riflessioni – data la golosità del cartellone –, è Lingotto Musica, che posto in senso stretto in realtà non è, ma certamente luogo metaforico in cui ancora poter godere di musica offerta a livelli stratosferici. La ragione di tanta ebrezza è presto detta: a inaugurare la stagione 24/25 c’era Yefim Bronfman con Rachmaninov, cinto dalla NDR Elbphilharmonie Orchester diretta da Alan Gilbert.
Croce o delizia di pianisti e musicofili, il Terzo Concerto per pianoforte e orchestra in re minore del gigante russo è la quint'essenza del pianismo nato oltre le steppe siberiane, la più esaltante manifestazione del concerto solistico romantico. In esso convivono, in un rapporto che è generalmente definito dall'interprete, vertigine tecnica e intimità melodica, acrobatismo circense e passi di danza, vigoria muscolare e delicato languore. Ancor più che suonare tutte le note, eseguire il Terzo di Rachmaninov significa dominare tutti questi elementi, creare un equilibrio e una relazione tra l'uno e l'altro; significa saper tenere a freno le mani o spingerle oltre i limiti del fisicamente possibile; significa giganteggiare con l'orchestra o lasciarsi ingurgitare da quell'inviluppo sonoro vibrante e flessuoso. Nessuno meglio di Bronfman sa far quadrare i conti in queste pagine giacché il virtuosismo a cui fa appello è la somma di raffinatezza tecnica e profondità d’espressione: lo si ascolta sovrastare i complessi nel dialogo serrato in cui si ripropone il sublime tema prima della cadenza, o fondersi un tutt’uno con essa nell’involo appassionato del secondo movimento; fare dello strumento protagonista drammatico della scena – nella sublime cadenza, ossia, naturalmente, il gesto pianistico più estremo appare sempre governato da un’autorevolezza di fondo che preclude ogni margine all’esibizionismo più frivolo – o languido pertichino, come negli arpeggi in punta di dita che nell’ultimo movimento conducono all’eccitante finale. Non vi è frase che non sia colorata all’inverosimile, conscio che la bellezza di Rachmaninov si riconosce più nell’armonia che nella melodia, non c’è accento che non sia scolpito con estrema sapienza, né un tasto affondato senza millimetrico controllo. E lascia dunque a bocca aperta questa straordinaria fluidità nell’articolazione, qualunque sia l’intensità e la profondità di suono ricercata in quel momento. Non c’è da stupirsi, quindi, se Alan Gilbert, sul podio, non imbocca la strada del dibattito, né intende duellare col solista sul palcoscenico. Balza in proscenio quando la partitura lo richiede, ma tende a fare dell’orchestra la natura estensione del pianoforte, una cassa di risonanza in cui far rimbalzare l’eco del pensiero solistico: vi infonde gli stessi equilibri tra armonia e melodia, tra testo e sottotesto. La fa cantare, la fa respirare, la fa imbronciare; la fa vivere, insomma, in sintonia con la tastiera, chiudendo un cerchio che appare quanto mai definitivo.
D’altro canto, la Quarta Sinfonia in fa minore che tra poco sarà eseguita è una pagina sufficientemente densa da far valere le ragioni di direttore e orchestra. I quattro movimenti scorrono tutti d’un fiato, dall’Andante sostenuto – Moderato con anima all’Allegro con fuoco finale. I complessi tedeschi offrono un suono rotondo e adamantino, sfoggiando dominio tecnico e capacità timbriche e dinamiche eccezionali, anche in pagine come il Pizzicato ostinato in terza posizione. Il fraseggio è ispirato e ricercato per il loro direttore principale. La Quarta di Čajkovskij mette in risalto una qualità di fondo che è frutto del grandissimo affiatamento tra il palcoscenico e il podio: ad ogni gesto corrisponde un’azione, ad ogni cenno una variazione agogica, ad ogni sguardo un colore o un accento.
È evidente nella ricchezza con cui il “tema del destino” è drammaticamente esposto e sviluppato nel primo movimento, concitato e fremente in un turbinio emotivo che risuona viscerale e deciso. È palpabile nell’Andantino in modo di canzona successivo – un capolavoro di finezza direttoriale – dove i violoncelli vibrano di un caldo colore ambrato lungo una serie di climax che conducono verso steppe malinconiche di rara bellezza – magnifico il legato degli archi quando la melodia si fa apoteosi –. È innegabile nel terzo movimento, quando si ascolta l’orchestra cimentarsi in dinamiche pizzicato mai udite prima. È trascinante nel finale, un classico momento di grandiosità alla russa, in cui l’ebrezza della scrittura, sorretta da un impeto di virtuosismo e controllo, conduce ai trionfali riconoscimenti di una sala gremita fino all’orlo. Serata memorabile.