L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Fantasmi alla Scala

di Francesco Lora

Nel volgere di sei giorni, tre appuntamenti hanno posto il Teatro alla Scala tra gli specchi del suo passato e del suo presente, da Médée di Cherubini e Simon Boccanegra, testi-fétiches di Maria Callas e Claudio Abbado, al trionfale ritorno di Riccardo Muti con la Chicago Symphony Orchestra.

MILANO, 27, 28 gennaio e 1° febbraio 2024 – Almeno fino alla prima metà dell’Ottocento, il Teatro La Fenice a Venezia e il San Carlo a Napoli hanno avuto maggior peso della Scala a Milano: è da successive ragioni politiche e di economia generale, artistica ed editoriale che quest’ultima istituzione ha tratto fama di primo teatro italiano. Un dato di fatto, dunque, è che soprattutto alla Scala competa commemorare quei musicisti sommi i quali sono, insieme, associati alla sua identità istituzionale e urgenti alla nostra contemporaneità: lo scorso 2 dicembre sono stati cent’anni dalla nascita di Maria Callas, lo scorso 20 gennaio sono stati dieci dalla morte di Claudio Abbado, il prossimo 29 novembre saranno cento da quella di Giacomo Puccini, e tanto basti a farsi un’idea di quali fantasmi aleggino, nell’arco di soli dodici mesi, sul confrontarsi e rinnovarsi della massima scena milanese. L’omaggio a Puccini vi arriverà in primavera ed estate, con due nuovi allestimenti della Rondine e di Turandot, mentre la seconda e la terza opera della stagione – altri nuovi allestimenti, dopo il Don Carlo inaugurale – sono andate a stuzzicare, senza un’intenzione dichiarata, la memoria d’interpreti enormi attraverso due loro testi-fétiches. Nel caso della Callas, s’è trattato di sei recite di Médée di Luigi Cherubini (14-28 gennaio), opera assente a Milano dal 1961 e ora finalmente restituita alla sua originale natura di opéra-comique in lingua francese e con – più o meno, come si dirà – dialoghi parlati (in luogo degli anacronistici recitativi accompagnati ottocenteschi). Nel caso di Abbado, si sta invece trattando di sette recite di Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi (1°-24 febbraio), opera data, al contrario, con regolarità, ma sempre tornando col pensiero alle decine di rappresentazioni da lui dirette tra il 1971 e il 1982, nel mitico ma perduto allestimento firmato da Giorgio Strehler ed Ezio Frigerio. Si dà qui conto di due percorsi opposti: l’ultima recita di Médée consente di tirare le somme su una produzione partita nell’entusiasmo e arrivata tra ammaccature, mentre la prima di Simon Boccanegra dà adito a un primo giudizio su uno spettacolo che può ancora ristrutturarsi nella forma e negli esiti.

419175818 950624666420631 4699153786682905996 nIn questa Médée non capita per la prima volta: lo spettacolo con regìa dell’intoccabile Damiano Michieletto – si vuol dire – piace alla critica che soprattutto alla Scala tende a darsi aria di radical chic, ma meno al pubblico, che tende a parlare come mangia, pagarsi il biglietto ed esigere comprensibilità. Scene, costumi e luci si devono ai fidi collaboratori – anzi co-autori – Paolo Fantin, Carla Teti e Alessandro Carletti: nessun dubbio che tale allestimento, in ciò che gli occhi vedono, sia a misura della Scala per qualità di design. La debole idea teatrale, invece, pare la riduzione in sedicesimo di quella in un’altra Médée, ben più articolata, concreta e graffiante, vista al Festival di Salisburgo nel 2019, con una tra le migliori regìe di Simon Stone [Salisburgo, Médée, 10/08/2019]: là i dialoghi erano sostituiti con toccanti monologhi interiori della protagonista, indagandosi il suo centrale punto di vista, e a ogni “numero” musicale corrispondeva un distinto tableau del progresso tragico; qui i dialoghi sono rimpiazzati con petulanti sussurri tra gli occisuri figlioletti, perdendosi in una riflessione periferica, e brani con ruolo diverso e tonalità lontane finiscono talvolta giustapposti in aperta cacofonia. Musicalmente disastrato il corso delle recite, a cominciare dalla parte di Médée, con Sonya Yoncheva che rinuncia alla produzione, Marina Rebeka che subentra alla grande – giusta l’ascolto radiofonico – ma poi cade ammalata (incolpando credibilmente, in un’intervista, il fumo, il fuoco e il vapore in scena), fino a una Claire de Monteil, che si fa carico delle ultime due recite e mezza con le minime qualità emergenziali di una “copertura”. Tutto ciò alla Scala, ancora in odore di centenario callasiano e a due settimane dal primo allarme. Stanislas de Barbeyrac, come Jason, modula con elegante duttilità; Nahuel Di Pierro, come Créon, incespica nella temibile gamma acuta; Martina Russomanno, come Dircé, suona stranamente nervosa; Ambroisine Bré, come Néris, obbliga a tendere l’orecchio. Orchestra e coro non perdono l’intrinseca eccellenza benché il concertatore, Michele Gamba, ne travesta la fonica con vezzi settecenteschi (ma la vera filologia è un’altra cosa).

096 0H3A1062Il peggior servizio al nuovo Simon Boccanegra è reso dal figlio di Claudio Abbado, Daniele, che firma la regìa e – con Angelo Linzalata – le scene, mentre i costumi sono di Nanà Cecchi (a proposito, poi, di par condicio: l’imminente Guillaume Tell scaligero avrà la regìa di Chiara Muti, figlia di Riccardo). Il problema, in questa lettura del dramma storico verdiano, è che se con le scene astratte imposti un non-luogo, con i costumi-cappotti imposti un non-tempo e con la generica recitazione imposti una non-azione, il rischio del non-teatro corre a razzo. Tutto ciò alla Scala, ancora in odore di decennale abbadiano e con Strehler e Frigerio fermi negli occhi. Merita ammirazione, al contrario, Lorenzo Viotti, altro figlio d’arte: la merita poiché tre quarti del pubblico languiscono per l’Adone del podio, ma soprattutto poiché si tratta di un concertatore con le idee chiare, diretto a restituire i tesori sinfonici della partitura senza perdere di vista le necessità teatrali, con l’adulta dote di preferire sempre la soluzione più moderata, signorile e sfumata, là ove, con la grossa cilindrata di orchestra e coro scaligeri, basterebbe un attimo a calcare troppo il pedale. Sorprende – sorprende sempre – Luca Salsi nella parte del protagonista: non si fa in tempo a classificarlo come baritono vilain, che subito egli vara una caratterizzazione vocio-psicologica dalle mille facce, al di sopra delle categorie, terribilmente o amorevolmente mutevole, a ogni frase, come un personaggio gigantesco pretende; il tutto assecondato da un corredo tecnico che nulla teme. Spiace invece che in Eleonora Buratto, il più attendibile soprano italiano di oggi tra quanti intenti a Verdi, perduri la spossatezza notata l’estate scorsa: la sua Amelia Grimaldi sarebbe altrimenti da manuale, come già nel 2012 all’Opera di Roma. Prevedibilmente sottilissimo nel porgere il Paolo Albiani di Roberto De Candia, e altrettanto prevedibilmente corretto ma sommario il Gabriele Adorno di Charles Castronovo. Pessimo l’azzardo di promuovere l’ormai stanco Ain Anger, già versatile basso-utilité della Staatsoper di Vienna, a basso di riferimento per la Scala: come già il Grande Inquisitore destinatogli nel Don Carlo inaugurale, anche Jacopo Fiesco non è certo parte comprimaria.

422894580 960233962126368 4490111835071243550 n«I morti ti salutano!», dice appunto a Simone, con fosca ironia, il vecchio Jacopo, sparito da vent’anni; poi infierisce: «Come fantasima | Fiesco t’appar | antico oltraggio | a vendicar» (III, 3). Alludendo alla recente Norma diretta da Riccardo Muti alla Fondazione Prada di Milano (ripresa a Ravenna [Ravenna, Una trilogia secondo Riccardo Muti, 16-22/12/2023]), si diceva pure della risibile damnatio memoriae che certa intellighenzia meneghina vorrebbe comminargli. La missione è passivamente far finta ch’egli non esista – ma allora bisogna saper tacere per sempre, cosa più difficile che sfogarsi e dir male – ovvero far credere agli sprovveduti, attivamente, che i vent’anni di sua direzione musicale siano stati la rovina della Scala: ma la sfida diviene allora saper spiegare come mai dal 2005, per altri vent’anni, il primo teatro italiano sia entrato in crisi identitaria, più appiattendosi sugli automatismi del mercato internazionale che additando al mondo un idiomatico cammino artistico. Fatto sta che Muti ogni tanto torna alla Scala, dirigendo una tra le sue orchestre del cuore: un altro fantasma, dunque, ma in carne e ossa, il quale dimostra, per vivacità cerebrale e baldanza fisica, la metà dei suoi ottantadue anni. È ricapitato il 27 gennaio, nell’àmbito della tournée della Chicago Symphony Orchestra tra Torino, Milano e Roma. Alla Scala, come prima al Lingotto [Torino, concerto Muti/Chicago Symphony, 26/01/2024] e poi all’Opera [Roma, concerto Muti/Chicago Symphony, 29/01/2024], il maestro ha presentato una parte fissa di programma, Aus Italien di Richard Strauss, insieme con una variata, in questo caso la Sinfonia n. 5 di Sergej Prokof’ev; la prima è servita a illustrare come la più germanica tra le compagini statunitensi abbia conseguito, con lui, anche un’inedita, legata, morbida cantabilità all’italiana, mentre la seconda è valsa a ostentare le strabilianti facoltà tecniche dell’orchestra in sé e così virtuosisticamente condotta. Solo alla Scala, due bis: l’Intermezzo da Manon Lescaut di Puccini e la Sinfonia da Giovanna d’Arco di Verdi. L’intellighenzia meneghina si quieti: nel suo teatro, un simile, franco trionfo di pubblico mancava da molto tempo. Un solo dolore: nella stessa sala, fino al 2005, queste serate formidabili erano la routine.

 


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