Eclettismo archeologico
di Sergio Albertini
Il Teatro Lirico di Cagliari anche quest'anno riserva il titolo inaugurale al repertorio meno consueto prima di riprendere titoli più noti e frequentati. Il recupero del Nerone di Boito si avvale della concertazione sapiente di Francesco Cilluffo e di un buon cast in cui spicca il Fanuèl di Roberto Frontali. Meno convincente la regia di Fabio Ceresa e poco incisivo come interprete il pur solido eponimo Mikheil Sheshaberidze.
CAGLIARI, 9 febbraio 2024 - Osare. Oltre il già visto e il già ascoltato. Il Lirico di Cagliari ci prova ad ogni inaugurazione, scivolando subito dopo nel torpore di stagioni anestetizzanti, che piacciono al pubblico pigro e rinunciatario. Il sussulto arriva sempre (o solo) alle inaugurazioni, dedicate all'esplorazione di un repertorio – per lo più italiano – caduto (e spesso a ragione) nel dimenticatoio. Tocca quest'anno al Nerone di Boito; una nuova produzione intrisa di ambigua 'romanità' (in attesa che il Lirico di Cagliari viri per veri capolavori come L'incoronazione di Poppea, Giulio Cesare o La clemenza di Tito); un'opera monstre e irrisolta, la cui composizione dura mezzo secolo, rimanendo alfine incompiuta (e qui viene presentata non ancora in una edizione critica, ma con gli aggiustamenti, i rifacimenti, i completamenti voluti fortemente da Arturo Toscanini e realizzati da Antonio Smareglia e Vincenzo Tommasini). Boito lavora con una meticolosità documentaria e una infinità di materiali, ma inizia il progetto mentre nei teatri trionfa Cavalleria rusticana ed è ancora progetto incompiuto quando in scena ci sono già Salome e Pelléas et Mélisande. Nella sua musica c'è di tutto, Wagner incluso, in una rielaborazione che segna una cifra stilistica assolutamente personale. Nel novero dei (veri) capolavori incompiuti del Novecento, da Turandot a Lulu, dal Doktor Faust al Moses und Aron, Nerone si ritaglia un suo spazio, ancora forse tutto da analizzare, con un quinto atto non completato, ma un materiale musicale di tutto rispetto.
Lodi vanno innanzi tutto a Francesco Cilluffo, che dal podio regge questo magma sonoro spigoloso, roboante, e che riesce a farsi morbido e commovente (soprattutto nel quarto atto): una partitura che è un compendio di esperienze, di suggestioni, di rimandi e che spesso appare davvero come un 'unicum' (forse solo l'Oedipe di Enescu può essergli affiancato). L'orchestrazione lussuosa e caleidoscopica trova nell'Orchestra del Lirico una risposta eccellente in ogni sua sezione (ottoni e legni in primis), anche se non si sa quale sia il 'tocco' aggiunto di Smareglia, ma soprattutto di Tommasini, che aveva caro il mondo di Debussy. Una certa inattualità emerge invece dal libretto, sempre di Boito, che trasuda ricercatezze e neologismi inusuali oggi come forse ieri.
Il cast presenta una punta di assoluta eccellenza in Roberto Frontali, Fanuèl; costruisce un personaggio intriso di sdegno e di pietà, di affetto e di smarrimento con un canto morbido, carezzevole, controllato, forte di una lunga, bella e solida carriera. Gli è accanto Franco Vassallo, Simon Mago, che nella scena “Nell'antro ov'io m'ascondo” esibisce una ricchezza di colori e di accenti di grande scuola. Deniz Uzun, cui è affidata la chiusura dell'opera, è una commovente Rubria. Accanto a loro, il Nerone di Mikheil Sheshaberidze – in una parte che fu di Pertile (alla prima, esattamente cento anni fa), Lauri Volpi, Picchi, Prandelli, Prevedi – possiede un registro acuto di ben proiettata potenza, e regge con sicurezza un declamato spesso tutto sul passaggio di registro; quel che latita totalmente è la creazione del personaggio, gestito con un goffo vagolare sulla scena (imbarazzante la scena dell'amplesso con Asteria). Il resto del cast si mantiene su un buon livello, dall'Asteria di Vaentina Boi alle parti minori (Dongho Kim, Vassily Solodkyy, Antonio Gacobbe, Natalia Gavrilan, Fiorenzo Tomincasa, Nicola Ebau, Francesca Zanatta, Luana Spinola). Come sempre, il coro del Lirico – particolarmente utilizzato da Boito in numerosi interventi – conferma appieno le sue ben note qualità sotto la guida di Giovanni Andreoli.
Difficile, invece, restare soddisfatti dalle scelte registiche di Fabio Ceresa. In una scenografia monumentale di Tiziano Santi (che strizza l'occhio all'immagine dell'età classica e dell'Impero Romano cara al Fascismo, con colonne coronate da fanali di gusto littorio, da una riproduzione del Palazzo dell'Eur, dalle aquile del Ponte Flaminio, dalla Basilica di San Pietro e Paolo, costruita tra il 1939 e il 1955), con costumi di Claudia Pernigotti (tra il gusto dei film peplum, uomini in abiti coloniali, Nerone con una divisa di taglio ottocentesco con applicata una imbarazzante pelle leopardata), i movimenti coreografici di Mattia Agatiello e il tutto assecondato dalle efficaci luci di Daniele Naldi (curate notti e albe, incendi e interni catacombali), la regia sembra volere e non potere, con cadute di gusto inaccettabili (quegli uomini-puledro, così simili alla Cavalleria rusticana di Emma Dante, che finiscono col roteare tra le mani uno sterzo col simbolo della Mercedes Benz, la partita di pallone – di marmo – con le magliette numerate, una delle quali col numero 11 a rimandare alla recente scomparsa di un vero 'gladiatore' come Gigi Riva), un buon controllo delle masse, ma una danza di Asteria ad evocare la dea indiana Kalì, un Apollo onnipresente – vero e proprio doppio di Nerone - dalle mosse sinuose (mi ricordava la figura del Pastore in una messa in scena di Król Roger di Szymanowski firmata da Zanussi). E, per finire, una chiusa dell'opera con la non prevista presenza di Nerone (cui si sarebbe dedicato il mancato quinto atto). Un piccolo pantano in cui sprofondano anche le buone intenzioni.
Applausi del pubblico. Ma a Cagliari, si sa, è prassi consolidata applaudire. Sempre e comunque.
Cagliari, 9 febbraio 2024
Sergio Albertini