L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La ricetta del Turco

di Roberta Pedrotti

Una compagnia di canto di buon livello, l'orchestra Cherubini e uno spettacolo ben congegnato sono i punti di forza della coproduzione del Turco in Italia partita da Rovigo. Non convince, invece, la scelta di alternare nelle recite due diversi direttori.

RAVENNA, 3 marzo 2024 - Degli ingredienti necessari per un buon dramma buffo s'intende bene il poeta Prosdocimo, che seleziona, scarta, trae ispirazione e indirizza gli eventi ora in ossequio alle regole ora modificandole. È probabile che la ricetta di questo Turco in Italia avrebbe trovato in buona parte la sua approvazione, e non solo perché il testo, dopotutto, è suo e gli è riuscito proprio bene: la commedia d'infedeltà coniugali già messa in scena da “poeti d'ogni razza” si avvale di più di un carattere “bello e interessante”, non ultimo il poeta stesso. Rossini non è da meno, con quella sagacia ineffabile che gli fa aprire le danze del libertinaggio (l'arrivo di Selim) con una citazione dell'ingresso del Commendatore al banchetto fatale di Don Giovanni. Né è un problema il fatto che non tutta la musica sia sua: avvalersi di collaboratori, un po' come nelle botteghe dei pittori, era uso dell'epoca che non offuscava il ruolo dell'autore. Semmai, il caso del Turco è emblematico per il numero di varianti apportate da Rossini o sotto il suo controllo diretto, al punto che negli ultimi anni si è arrivati ad accumulare arie aggiunte e alternative invece di considerarle opzioni che non turbino l'assetto originale. In questo caso, perlomeno, si è evitata la sortita di Don Narciso “Un vago sembiante”, la cui ragion d'essere sarebbe nella presenza di un tenore fuori dal comune, tanto più che la parte già può contare su un bell'arioso (“Come mai se son tradito”) e un'aria di più ampio respiro (“Tu seconda il mio disegno”), mentre si sono conservati gli assoli sia per Albazar (grazioso, ma apocrifo e opzionale ), sia per Don Geronio. Questi si trova con un'aria per atto: la prima, “Vado in traccia d'una zingara”, è sicuramente opera di un collaboratore, ma è più teatrale e perfettamente integrata nell'intreccio; la seconda, “Se ha da dirla avrei molto piacere”, è di probabile mano rossiniana, ma pure meno utile e fluida ai fini drammaturgici. Ad ogni modo, Rossini pensò all'opera con l'una o con l'altra, non con entrambe e quest'ultima opzione dovrebbe essere considerata solo in casi eccezionali e comunque evitando di appesantire il secondo atto come una passerella di arie solistiche. In questo caso, peraltro, ci si domanda perché inserire i due pezzi quando il primo sarebbe anche l'unico numero in partitura con un coro femminile che qui non c'è, costringendo ad affidare i suoi interventi alla sola Zaida. Al di là di questo superfluo escamotage, gli altri son rilievi testuali già mossi perfino a Pesaro, sicché non se ne potrà fare una colpa ("tal dei tempi è il costume") a questa coproduzione anzi virtuosa. L'ingrediente è, dunque, di prima qualità e si apprezza ancor più perché ammanito di concerto da teatri di provincia, capofila la rampante Rovigo cui fanno seguito, con Ravenna, Jesi, Novara, Rimini e Pisa.

Altro ottimo ingrediente è quello teatrale organizzato da Roberto Catalano, che ancora una volta orchestra una drammaturgia di colori caratterizzanti in collaborazione con Guido Buganza (scene), Ilaria Auriemme (costumi) e Oscar Frosio (luci): il giallo del mondo di Fiorilla e del consumismo che la anima; blu e grigio per la scatola scenica e i personaggi esotici; giacca, cravatta e taccuino per il poeta, nevrotico intellettuale o sedicente tale. Dalla turcheria tardo illuminista (il “caso molto raro” della curiosità di un principe orientale per “i costumi europei” ha come antecedente almeno l'Usbeck di Montesquieu) si concentra l'attenzione sulla spasmodica ricerca del piacere di Fiorilla, moglie insoddisfatta e annoiata cui il tubo catodico (senza citazioni esplicite, si respira un'aria da Sceicco bianco o Rosa purpurea del Cairo, non senza un pizzico di Griffin) promette di riempire l'esistenza con oggetti, merci, perfino amori. Chiaro e sgargiante, con belle soluzioni nel finale, lo spettacolo si fa apprezzare e riesce a gestire senza banalità topoi ben consolidati.

Anche il cast è ben amalgamato e concorre al buon esito della produzione. Maharram Huseynov è un Selim di luminosa pronuncia italiana, vocalità morbida ed emissione fluida: la vera sorpresa di questa produzione ricca di conferme. Giuliana Gianfaldoni, come Fiorilla, ribadisce il controllo della bella pasta vocale con una prova in crescendo che culmina nella grande scena del secondo atto, momento in cui dallo spensierato libertinaggio fiorisce definitivamente l'autorevolezza della primadonna. Giulio Mastrototaro è sempre un bell'esempio di buffo moderno, chiaro, musicale e misurato, mentre Bruno Taddia, con la sua voce chiara e spigolosa, presta al Poeta le sue sulfuree doti attoriali. Francisco Brito non abbaglierà per qualità naturali o tecniche, ma è comunque un Don Narciso soddisfacente. Interessanti doti mostra, in nuce, l'Albazar di Antonio Garés, pur ancora limitate da eccessive inflessioni nasali. Francesca Cucuzza mostra voce assai penetrante, di natura però più sopranile di quanto la parte di Zaida e il contrasto con la rivale possano richiedere.

Bifronte il risultato di orchestra, coro e concertazione. Se, infatti, la Cherubini sfoggia ottime individualità, suono morbido e ben plasmato, agli antipodi sta il Coro Lirico Veneto diretto da Giuliano Fracasso, dal quale avremmo almeno auspicato un pizzico di grazia. L'idea di spartire la concertazione fra due direttori, poi, non può dirsi vincente. Mentre giunge l'eco dell'esito interessante delle prime con Hossein Pishkar sul podio, il subentrare a recite alterne di Marco Crispo porta un'aura di precarietà e non pochi scollamenti (eclatanti quelli nella stretta del quintetto), dando l'impressione che il cast sia troppo spesso in tensione, indeciso su attacchi, tempi, respiri senza la debita sintonia con la bacchetta. Peccato, perché questo è un ingrediente che può determinare l'equilibrio dell'intera ricetta, di per sé ottima e da riproporre senza indugio alla prossima occasione.


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