L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Meglio l'oblio

di Luigi Raso

Pubblico maleducato, allestimento banale e confuso, concertazione piatta e plateale, cast non sempre a fuoco, né mai guidato da direttore e regista. Norma al San Carlo di Napoli è una serata che si dimentica volentieri.

NAPOLI, 12 marzo 2024 - “Nulla di nuovo sotto…la luna!” è locuzione che può sintetizzare Norma andata in scena al Teatro San Carlo. La produzione del Teatro Real di Madrid, firmata dall'australiano Justin Way, è immersa in un desolante vuoto di idee che si prova a riempire con una tra le più trite tra le trovate registiche, quella del metateatro.

Lo spettacolo di Way - scene di Charles Edwards, costumi di Sue Willmington, luci di Nicolás Fischtel (arredo visivo esteticamente lontanissimo da un canone medio di bellezza), movimenti scenici di Jo Meredith - è di quelli, per la quasi totalità dello spettacolo, privi di reale originalità. Dopo aver visto avvicendamenti di ambientazioni riconducibili a una rappresentazione di Norma nel 1831 (l’impianto scenografico del teatro nel quale si svolge l’opera nell’opera richiama, seppur alla lontana, il Teatro alla Scala, che Norma tenne a battesimo proprio in quell'anno), dopo aver ammirato foreste, rocce, uno studio/ufficio borghese ottocentesco (ah, sì: Norma per il regista è anche una cantante/imprenditrice di quel fatidico 1831; la circostanza, non desumibile dallo spettacolo, la apprendiamo leggendo l’intervista a Way a cura di Lucia Licciardi presente nel programma di sala), solo nel finale fa breccia una trovata che ci desta leggermente dal torpore indotto dal disegno registico: l’involucro teatrale nel quale si svolge Norma è distrutto dalle fiamme;Norma e Pollione si dirigono verso l’edificio divorato dall’incendio; i loro due figli scrutano dal palcoscenico del San Carlo il teatro che rapidamente si distrugge. Tutto qui.

Justin Way suddivide la trama di Norma in una narrazione diacronica, che oscilla tra ambientazioni e riferimenti ottocenteschi (fin troppo lampante è la citazione di Senso di Luchino Visconti, della storia d’amore tra il tenente austriaco Franz Mahler e la contessa veneziana Livia Serpieri) e quelli delle Gallie conquistate dai romani. Uno degli aspetti più interessanti, in chiave risorgimentale e anti austriaca, della drammaturgia di Norma sta nel capovolgimento dei valori operato dal libretto di Felice Romani e dalla musica di Vincenzo Bellini: nel 1831, in un periodo di mitizzazione del classicismo e dell’azione civilizzatrice della romanità, in Norma sono proprio i discendenti di Romolo a non fare bella figura; i “barbari” Galli e Druidi, invece, diventano i custodi di dignità, coraggio e virtù che difettano ai conquistatori romani. Le rilettura di Justin Way parte da questo assunto: i romani/austriaci sono i “cattivi”, i romani/milanesi sono i “buoni”. Dicotomia perfetta. Peccato che questa narrazione, così come quella della rappresentazione di Norma stessa nel teatro ottocentesco, dell’amore di Pollione, qui ufficiale austriaco, per Adalgisa, sia operata con passo lento e incongruente, ricorrendo a una gestualità asfittica e convenzionale: una coltre di sostanziale staticità e di noia trafigge la vitalità dello spettacolo e l’attenzione degli spettatori. Nel ricreare un’ipotetica rappresentazione d'epoca di Norma, le scene si beano di uncalligrafismo di stampo ottocentesco; i costumi vestono i romani come ufficiali dell’esercito austriaco, il coro dei druidi con lunghe tuniche e, tramutatosi in setta di carbonari milanesi, con barbe lunghe e posticce che all’apparire generano qualche accenno di ilarità. In definitiva, quella di Justin Way è una messinscena che vorrebbe essere innovativa (attraverso il ricorso ad un vecchio vecchio espediente) e, al tempo stesso, tradizionalissima nel suo rivolgersi all’Ottocento per il corredo scenografico e di ambientazione. Risultato? Una rivisitazione confusa, banale, dominata dalla staticità e prevedibilità dei movimenti che lentamente conduce tutto in una plaga di tedio.

Non è una serata da ricordare al San Carlo, questa prima rappresentazione di Norma: il versante musicale è purtroppo speculare a quello registico.

La concertazione del responsabile musicale di questa Norma, il direttore Lorenzo Passerini, sin dagli accordi iniziali della Sinfonia non convince. A dispetto del gesto enfatico di Passerini, la sua è una lettura priva di reale tensione drammatica, alla cui assenza nulla suppliscono gli affondi sonori di cui è disseminata l’esecuzione. La scelta di tempi non sempre appare calibrata sulle esigenze del canto, pronta a soccorrere i protagonisti nei momenti di temporanee difficoltà canore. Ma, più in generale, la concertazione di Passerini non sembra riuscire a tenere dritto il timone della rotta dell’orchestra del San Carlo sul canto, a rendere plastica e viva la melodizzazione e l’accompagnamento dei recitativi: troppi pochi colori, troppa poca mobilità di tempi, troppa poca fantasia in questa Norma. L’orchestra del San Carlo è in buona forma, tuttavia non appare, al di là della gestualità fin troppo plateale, realmente stimolata dal direttore: è priva di colori, rivestita e imbrigliata in un completo color grigio fumo di Londra.

Si apprezza il lavoro puntuale e professionale del Coro del San Carlo, guidato da Fabrizio Cassi: una formazione più numerosa sulla scena avrebbe di certo assicurato maggior forza drammatica alle scene corali dell’opera, peraltro risolte egregiamente e con bel colore e compattezza dalla compagine sancarliana.

Neppure il cast vocale, che pure schiera nomi blasonati, riesce a raddrizzare una produzione nata sotto i migliori auspici.

Non convince la Norma di Anna Pirozzi: pur mostrando corredo vocale, peso specifico, fascino e suggestione del timbro vocale adeguati alla parte, sin dal recitativo iniziale (“Sediziose voci”) è troppo attenta e concentrata a rinforzare il già notevole peso delle singole note e poco propensa, invece, ad assicurare una linea conforme ai dettati del purissimo belcanto belliniano. Troppe forzature, poca attenzione al legato e al canto sul fiato, non sempre la rendono fluida e spontanea. Troppe, francamente, le colorature spianate e gli acuti sforzati e affilati nella cabaletta “Ah! Bello a me ritorna”.La prova del sorpano è, comunque, in crescendo: attenuatasi, forse, la comprensibile tensione iniziale, il secondo atto regala pagine affrontate con maggiore rilassatezza e precisione, con maggior cesello nel fraseggio, senza tuttavia, ad avviso di chi scrive, delineare una Norma all’altezza della alte aspettative che il nome della Pirozzi induce a nutrire.

L’Adalgisa, in questa occasione affidata a un mezzosoprano, di Ekaterina Gubanova vanta un timbro brunito, ma un’emissione eccessivamente intubata e diffuse forzature alterano la bellezza dello smalto. Quella della Gubanova è una giovane sacerdotessa nel complesso abbastanza corretta vocalmente e misurata come interprete.

Il Pollione di Freddie De Tommaso è divorato dall’ansia di mostrare i muscoli dei propri mezzi non usuali: questo sfoggio, tuttavia, porta il giovane e talentuoso tenore a gonfiare, senza che se ne avverta il bisogno, i suoni del registro centrale e basso. Il suo stile di canto strizza l’occhio a blasonati e ormai mitici modelli italiani degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso: certe inflessioni, accenti e sfumature tradiscono l’ammirazione sconfinata, e giustificabile, per un tipo di tenore che però stile, gusto e, soprattutto, la straordinarietà dei mezzi hanno collocato in un’epoca dell’interpretazione conclusa e consegnata alla storia.

Il rischio, più attuale che potenziale, è che questo modello di vocalità old style possa indurre De Tommaso a sforzare una muscolatura già di per sé notevole a scapito di eleganza stilistica, tenuta e precisione della linea. Il suo Pollione, infatti, è tutto giocato sulla forza, sull’esibizione di un registro acuto ben timbrato e abbastanza squillante: a farne le spese sono la fantasia del fraseggio, la coerenza, la fluidità di una linea frequentemente frammentata da sfoggio di note rafforzate nel peso e, tout court, la musicalità

Alexander Tsymbalyuk è un Oroveso dall’emissione e intonazione eccessivamente problematiche: gran vocione, ma canto sconnesso e affetto da troppe imprecisioni.

Assolvono egregiamente ai loro compiti Veronica Marini, Clotilde, e Giorgi Guliashvili, ex allievo Accademia del Teatro di San Carlo, nei panni di Flavio.

Prima di raccontarvi l’esito della serata, il dovere di cronaca, stavolta non musicale, impone di registrare e censurare il comportamento tenuto da parte del pubblico, atteggiamento che verosimilmente potrebbe aver influito sul deludente risultato musicale della serata.

I fatti e le circostanze. Sala del San Carlo gremita; presenza di folti gruppi di scolaresche di Prato e di Bari (lo scrive il Teatro stesso sulla propria pagina Facebook) che, per l’intera durata dello spettacolo, si producono in un vociare e bisbigliare continuo, udibile e molesto, sia per il pubblico, sia - immaginiamo - per la concentrazione degli artisti; qualche “diversamente giovane” - come si impone di dire oggi - ha poi ripetutamente provato a riprendere alcune scene dell’opera con la videocamera del proprio smartphone. Il personale di sala, dunque, più volte è stato costretto a intervenire: andirivieni in sala, deconcentrazione, rumori nel corso dello spettacolo.

Ad ogni modo, al termine vengono tributati calorosi e prolungati applausi per tutti; qualche isolato, ma ben percepibile, segno di dissenso per Freddie De Tommaso, il direttore d’orchestra Lorenzo Passerini e all’indirizzo dell’équipe registica.

Serata, musicale e non, da archiviare.


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