Ricordando Thaïs
di Francesco Lora
Maria Egiziaca di Ottorino Respighi, al Teatro Malibràn per la Fenice, è titolo reservato e spettacolo per intenditori, coordinato dal regista Pier Luigi Pizzi e assecondato dal direttore Manlio Benzi; di valore la compagnia di canto, con gli ottimi Francesca Dotto e Simone Alberghini.
VENEZIA, 16 marzo 2024 – Le cose piccole sono le più preziose. Maria Egiziaca, il ‘mistero in tre episodi’ del 1932 con libretto di Claudio Guastalla e musica di Ottorino Respighi, sull’antica prostituta poi convertitasi, ritiratasi per mezzo secolo in penitenza nel deserto e infine santificata, dura, infatti, settanta minuti filati soltanto: per fare serata – dirà qualcuno – bisognerebbe abbinarla ad altro, per esempio con Lucrezia, ulteriore atto unico degli stessi autori. Le cinque rare recite dall’8 al 16 marzo scorsi, a loro volta, hanno avuto luogo a Venezia per conto del Teatro La Fenice, sì, ma non nella sala massima in Campo S. Fantin, sibbene in quella sussidiaria del Teatro Malibràn, la quale troppo spesso ci si dimentica, tuttavia, essere non altro che il mitico S. Giovanni Grisostomo, forse la più importante casa dell’opera al mondo tra Sei e Settecento. Lasciato da solo il titolo reservato nello spazio più nobile e meno turistico, ne salta fuori uno spettacolo – imperdibile – per intenditori. Nel dargli le coordinate interpretative, spadroneggia da pari suo Pier Luigi Pizzi, al solito sia regista, sia scenografo, sia costumista: maneggia con crescente disinvoltura i fondali video digitali, fa con le silouettes nere su base accecante le meraviglie invece invecchiate nella recente Entführung secondo Giorgio Strehler alla Scala [leggi la recensione], conduce la gestualità alle vette estetizzanti delle quali è maestro. Soprattutto, commuove quando sollecita i ricordi e aggiorna le immagini, citando con mano leggera l’inarrivabile sé stesso di ventidue anni fa: si trattava allora di Thaïs di Jules Massenet, anche questa rappresentata al Malibràn, con un plot sovrapponibile per ampi tratti a quello dell’Egiziaca e un allestimento ancora tutto strutturalmente costruito anziché digitalmente affrescato; ma la selva di croci bianche nel finale respighiano richiama quella già contemplata nell’ultimo atto della struggente comédie francese, ed entrambe sono a loro volta un pegno dell’erudizione iconografica che partecipa ad attestare Pizzi una bella spanna sopra gli epigoni: l’idea proviene da tele pittoriche di Lelio Orsi, cinquecentesche, e da un manierismo che anticipa il surrealismo.
Al servizio della parte teatrale si colloca quella musicale, diretta da Manlio Benzi con dedizione di Coro e Orchestra della Fenice: la compagine strumentale include arcaisticamente il clavicembalo, in una di quelle sue ricostruzioni proto-novecentesche, alla Wanda Landowska, col mobile pesante una tonnellata e un pizzico vetroso e glaciale. Quanto alla compagnia di canto, poi, è quella giusta onde capire e attuare. Francesca Dotto incorpora con immedesimazione totale e avvincente la parte eponima, che la impegna fino all’ultima risorsa, recitativa e canora, trovandola adeguata nel materiale – contro una scrittura scabrosa – e ancor più nell’intelletto. La lode va condivisa con Simone Alberghini, tanto incisivo quando screziato nelle compenetrate parti del Pellegrino e dell’Abate Zosimo; con un dettaglio che chiude il cerchio: nell’unica ripresa della Thaïs di Pizzi, alla Fenice nel 2007, era stato lui l’ultimo a tenere l’omologo ruolo di Athanaël. Spicca a propria volta, con franco canto tenorile, Vincenzo Costanzo quale Marinaio e Lebbroso, e tutto il comprimariato mostra accuratezza di scelta e preparazione: Michele Galbiati come Compagno, Luigi Morassi come altro Compagno e Povero, Ilaria Vanacore come Cieca e Voce dell’Angelo nonché William Corrò come Voce dal mare, senza dimenticare Maria Novella Della Martira come controfigura danzante della protagonista. In ultimo, uno svelto bollettino sullo scorso febbraio alla Fenice. Nella Bohème di Giacomo Puccini per cinque recite dal 2 al 10, a rinnovarsi per freschezza è la regìa di Francesco Micheli e non la funzionale direzione di Stefano Ranzani; Celso Albelo, atteso al debutto come Rodolfo, vanta ciò che resta del comunicativo timbro, ma è pesce fuor d’acqua nel canto di conversazione. Anton Bruckner gode un benvenuto spazio nel bicentenario della nascita, con le Sinfonie n. 4, il 17 e 18 febbraio, e n. 8, il 23-25; esecuzioni in proporzione inversa: Hartmut Haenchen, nella prima, illustra un maggior possesso poetico della partitura che non tecnico dell’orchestra, mentre Alpesh Chauhan, nella seconda, si accontenta di un discorso più stilizzato ma trascina prestanti con sé le file.