Leggenda, bizzarria e passione
di Alberto Ponti
La prima fatica operistica di Giacomo Puccini rivive al Regio in un nuovo e curato allestimento per la regia di Pier Francesco Maestrini e l’arrembante bacchetta di Riccardo Frizza.
TORINO, 23 aprile 2024 - Nella stagione del Teatro Regio, in larga misura influenzata dal centenario pucciniano, occupa un posto a sé la messinscena delle Villi, opera prima del compositore lucchese. La formula è originale, con l’intera serata occupata da una pagina dalla durata complessiva di poco superiore a un’ora, suddivisa in due parti intramezzate da un intervallo di mezz’ora. Non che sia un male, se ciò favorisce l’attenzione su un lavoro che, essendo spesso proposto in abbinamento con altri titoli più noti, finisce per sfuggire almeno in parte all’attenzione del grande pubblico. La cura rivolta allo spettacolo è notevole, con l’inaugurazione di un nuovo allestimento destinato, ci auguriamo, ad essere ripreso in giro per l’Italia e per il mondo.
Giacomo Puccini, quando mette mano a queste Villi, sorta di fate ricorrenti nella mitologia nordica e slava, è un venticinquenne di belle speranze che si cimenta nel concorso per il teatro lirico bandito dall’editore Sonzogno. Non solo non lo vince ma non entra nemmeno nella ‘cinquina’ degli autori finalisti, per ironia della sorte ormai dimenticati da decenni. Viene però notato dall’editore concorrente Ricordi, il quale si prodiga per fare rappresentare l’opera al Teatro Dal Verme di Milano nel maggio 1884.
Il libretto di Ferdinando Fontana, uno scapigliato che, a differenza di un Arrigo Boito o di un Luigi Illica, è abbastanza privo di autoironia, non aiuta: vorrebbe introdurre in ambito italiano, in cui sono tradizionalmente molto marginali, suggestioni stregonesche tipiche invece di riferimenti culturali mitteleuropei, finendo per produrre un ibrido a metà strada tra melodramma (anzi ‘opera-ballo’ in virtù della danza finale delle villi che ghermiscono l’amante infedele) e melologo, con la recita di versi ad accompagnare un esteso e decisivo quadro sinfonico centrale, trait d’union tra i due atti. Il risultato è a tratti bizzarro se non esilarante. Mentre scorre il corteo funebre di Anna, morta di dolore per l’abbandono del promesso sposo, la voce fuori scena, sotto le delicate volute di un elegiaco ed etereo fa maggiore, rievoca con l’enfasi leggendaria connaturata al testo il tradimento del fidanzato Roberto con una donna di facili costumi in quel di Magonza dove si era recato a riscuotere un’eredità: ‘Di quei giorni a Magonza una sirena/i vecchi e i giovinetti affascinava…’. Fontana si prende molto sul serio e infatti avrà da ridire sulla successiva divisione in due atti, in luogo dell’atto unico originario, decisa su suggerimento di Ricordi.
Per qualsiasi compositore italiano dell’epoca l’ostacolo del soggetto sarebbe stato quasi insormontabile ma Puccini, grazie al suo genio, ne trae, nonostante la brevità, una partitura musicalmente accattivante che non risente dello stacco forzato dell’azione tra i due atti, orchestrata in maniera superba tanto che sia il preludio sia soprattutto l’intermezzo bipartito (L’abbandono e La tregenda), inglobato poi nel secondo atto nella versione finale, potrebbero vivere come autonome pagine sinfoniche da concerto. Anche la condotta melodica delle arie principali, pur risentendo ancora di modelli verdiani, rivela in maniera embrionale ma inequivocabile i tratti dell’ispirazione tipica dell’artista maturo, e da molti incisi, aperture, mezze frasi si intravede il futuro autore di Manon Lescaut.
La regia di Pier Francesco Maestrini, dal canto suo, si sgancia in modo intenzionale dal puro contesto naturale, conservandolo nella scena finale quando Roberto, tornato al villaggio, incontra lo spirito vendicativo di Anna e finisce stritolato dalle villi che, in un macabro crescendo orgiastico, lo accerchiano e dilaniano fino a strapparne il cuore. Dalla generica epoca antica evocata dal libretto si passa così a un’ambientazione coeva alla composizione, con i costumi di ottima fattura ideati da Luca Dall’Alpi. L’attenzione di una regia dove nulla è lasciato al caso è evidente da molti dettagli: l’onirica foresta di abnormi fiori variopinti che domina all’apertura, i movimenti villerecci del coro dei montanari, la ridda delle villi sotto un grande dipinto lascivo disceso dall’alto, il ricorso all’inizio dei due atti di un secondo sipario con una lieve velatura in grado di lasciar trasparire ciò che avviene dietro aumentando il senso di mistero e soprannaturale. Va riconosciuto il merito, in questo meccanismo tanto breve quanto complesso, dei validi collaboratori di Maestrini, da Guillermo Nova (ideatore delle scene) a Michele Cosentino (coreografo e assistente alla regia), da Bruno Ciulli (luci) a Laura Viglione (assistente ai costumi).
Sul versante musicale domina la personalità di Riccardo Frizza, alla testa di un’orchestra del Teatro Regio in grande spolvero in ogni sezione e in particolare sintonia con la bacchetta del maestro bresciano, a cui bastano pochi cenni per ottenere un suono brillante e incisivo al momento necessario, senza però rinunciare a leggerezza, sapidità di fraseggio, rilievo delle differenti combinazioni nella tavolozza timbrica utilizzata da Puccini. Né manca da parte di Frizza una forte enfasi melodrammatica nei punti culminanti, nei passaggi di maggior intensità lirica e drammatica che, se da lato potrebbero apparire fuori luogo alle nostre orecchie consapevoli della produzione successiva del musicista, dall’altro è giustificata dai modelli precedenti di opera a numeri chiusi cui egli stesso si rifaceva nel suo titolo di esordio, oltre che, nel caso concreto, dalla necessità di non lasciar cadere la tensione sostenendo una coppia di protagonisti talvolta a malpartito nel reggere il peso drammatico dei personaggi. Roberta Mantegna possiede buona intonazione e presenza scenica ma il volume dell’emissione si mostra sovente debole a scapito di un ruolo sopranile predominante che non ammette incertezze e richiederebbe un temperamento vocale da autentica primadonna. Anche il tenore Azer Zada fatica un po’ a entrare nella parte, restando sottotono nell’attesa romanza ‘Torna ai felici dì’ che rimane il brano più popolare dell’opera. Il cantante azero può contare tuttavia su una buona e sicura tecnica che, nonostante la passionalità trattenuta, gli consente di condurre in porto con eleganza il primo e il secondo duetto con Anna, con un caratteristico timbro scuro ben inquadrato all’interno dei momenti di migliore espansione lirica della partitura.
Di convincente livello da capo a fondo è invece la prestazione di Simone Piazzola nella veste di Guglielmo Wulf, padre di Anna, che nel cantabile ‘Anima santa della figlia mia’, ricalcato su una vocalità di tipo verdiano, mette in luce una sincera forza espressiva in grado di scaldare al meglio la vellutata rotondità del suo registro baritonale.
Lo spettacolo non fa registrare il tutto esaurito ma, per un titolo da intenditori, la platea è discretamente affollata e applaude con convinzione attori e messinscena originale, con un entusiasmo particolare per il sempre ottimo coro del Teatro Regio, guidato da Ulisse Trabacchin, che in questa occasione si può ben definire il quarto personaggio a fianco delle tre voci soliste, e il gruppetto di mimi danzatori e danzatrici nel ruolo delle villi.