Le due Sonnambule
di Stefano Ceccarelli
L’Opera di Roma presenta un nuovo allestimento de La sonnambula di Vincenzo Bellini firmato da Jean Philippe Clarac e Olivier Deloeuil (gruppo Le Lab), sotto la direzione di Francesco Lanzillotta. Nel ruolo del titolo brillano – è il caso di dire – sia Lisette Oropesa che Ruth Iniesta, che si sono divise il palco per un’indisposizione della prima fra i due atti; buona la performance di John Osborn in Elvino, come pure di Roberto Tagliavini in Rodolfo.
ROMA, 14 aprile 2024 – Siamo di fronte ad un’opera o ad un film? Questa è la sensazione che si prova all’inizio di questa nuova Sonnambula romana, affidata alla regia di Jean Philippe Clarac e Olivier Deloeuil, membri del collettivo artistico Le Lab, che con questa produzione debuttano in un grande palcoscenico italiano. Il pubblico assiste, infatti, ad un video in cui un’attrice, alter ego di Amina, si aggira per una Roma romanticamente notturna. Amina manda un messaggio alla mamma, augurandosi che il suo futuro sposo (Elvino) non giunga in ritardo; si aggira per le vie di Quattro Fontane e fa una passeggiata al museo di Palazzo Barberini, dove si ferma a contemplare le voluttuose bellezze della Fornarina del Raffaello. Dopo, si dirige all’Hotel Quirinale e si addormenta sul divano. È a questo punto che prende avvio la vera a propria rappresentazione sul palcoscenico.
L’idea da cui parte la regia di Clarac-Deloeuil è quella del cosiddetto ‘sonnambulismo magnetico’, una sorta di ipnosi, praticata dai fautori del mesmerismo, la quale indurrebbe i pazienti in uno stato di sonnambulismo indotto dalla trance ipnotica. I registi, naturalmente, non intendono ipnotizzare nessuno, ma riproporre l’idea di un pubblico che assiste ad una sorta di ‘spettacolo’ di sonnambulismo. Tutta la vicenda di Amina ed Elvino, dunque, è frutto di una dimensione fra sogno/veglia prodotta dalla mente dell’Amina ‘contemporanea’. La vicenda si svolge in una galleria d’arte (la Galleria Elvezia), perché Amina si è addormentata dopo aver visitato un museo; ciò permette ai registi di rappresentare momenti della vicenda del libretto originale come performances di arte contemporanea. L’intera vicenda si svolge, dunque, all’interno di una semplice scenografia di pareti color alluminio, con dei pannelli led a movimentare le varie scene. Insomma, l’idea registica di Clarac-Deloeuil, in generale, pare molto curata nella creazione della narrazione, ma molto meno nella sua realizzazione scenica; al netto delle parti video, infatti, la regia presenta momenti farraginosi (la Benitez ha rischiato di cadere durante la sua cavatina), peraltro poco giustificabili nella linearità di una trama assai stereotipica. Il tema del sonno è onnipresente, forse anche troppo (l’ultima scena di sonnambulismo – quella in cui Amina rischia di cadere, per intenderci – si svolge sopra un enorme materasso e spesso si trovano personaggi addormentati in scena). Gli elementi più interessanti, ancorché agiti, sono simbolici. Su tutti, l’uso delle opere d’arte di Palazzo Barberini come fil rouge della vicenda. Il motivo è spiegato dai registi nel programma di sala ed è la volontà di sondare tre valori metaforici del sonno: la connessione con l’eros, la vita spirituale e la morte. Se il primo ed il terzo elemento sono ben posti (si pensi alla presenza della tomba della madre di Elvino durante la scena delle prime nozze), il secondo mi appare debole e meno rintracciabile nella regia. Tali valori metaforici sono evocati, nel corso dello spettacolo, dai quadri sul fondo, che divengono anche tableaux vivants grazie all’Amina/attrice: in tal senso, la riproposizione della Fornarina e della Maddalena penitente del Cagnacci e di Guido Reni incarnano perfettamente la sintesi del tema di eros/thanatos (il teschio allude proprio all’effimera esistenza umana). Quando la vicenda, che sovrappone l’Amina del sogno a quella della storia, arriva alla conclusione, l’attrice si palesa sul palco, dopo aver percorso (come mostrato in video), in pieno sonnambulismo, alcuni luoghi interni ed esterni al Costanzi, riunendo idealmente l’Amina onirica a quella ‘reale’: l’effetto pirandelliano è assicurato e dona all’idea di Clarac-Deloeuil una certa unità. Questa regia, certamente più singolare di quella dell’ultimo allestimento de La sonnambula al Costanzi (leggi la recensione) ha il pregio di un’idea intrigante, ma ha il difetto di una realizzazione farraginosa, poco efficace.
La direzione è affidata a Francesco Lanzillotta, direttore eclettico ma focalizzato sulla tradizione operistica italiana. Lanzillotta sa cavare dall’orchestra un suono pastoso, opportunamente onirico; eppure, forse, nel I atto largheggia un po’ troppo, qua e là, ove una partitura come La sonnambula avrebbe necessità di una mano più brillante; nel II atto, invece, sembra vivacizzare la direzione, tenuto conto che siamo davanti ad una partitura, val bene ricordarlo, romanticamente soporifera (nel senso positivo del termine), cioè di una partitura che allude, anche musicalmente, alla placida stasi di una dimensione onirica. Al netto di tutto, Lanzillotta è un sensibile direttore belcantista, attento a far cantare le voci nella più efficace effusione lirica. L’orchestra esegue bene la partitura, come pure il coro, che convince nei brani, dal sapore bucolico, così cari al gusto di un primo romanticismo: delizioso «In Elvezia non v’ha rosa», come pure «Qui la selva è più folta e ombrosa», ma anche il trepido «Al fosco cielo, a notte bruna» – in generale, Lanzillotta conferisce colore alle parti corali, più che ad altri passaggi.
Il ruolo del titolo è interpretato da Lisette Oropesa e, a sorpresa, anche da Ruth Iniesta. Infatti, un annuncio avverte il pubblico che la Oropesa non avrebbe eseguito il II atto, affidato alla protagonista del secondo cast. Il che sarà risultato strano ai più, visto che la Oropesa ha donato un’interpretazione ottima per tutto il I atto. Al netto, infatti, per i più attenti, di qualche lieve inflessione di volume o maggior presa di fiato, la Oropesa canta la parte di Amina ben centrata nella voce, svettante e pulita nei vari passaggi, come s’è notato nella sua cavatina: «Come per me sereno» è una lezione di belcanto, tanto per il dolce vibrato delle frasi, che per i legati, i fiati della melodia ‘lunga, lunga’, tutti porti con squisito fraseggio; la cabaletta, poi, stupisce per la floridezza delle variazioni, in particolare nella ripresa. Dolcissimo il duetto «Son geloso del zefiro errante», dove si apprezza anche il fraseggio della Oropesa; un’interpretazione trascinante, per tecnica e sentimento, si è ascoltata, inoltre, nel finale I («D’un pensiero e d’un accento»). La sorpresa del pubblico, dunque, è stata grande quando una voce ha annunciato che la Oropesa, per un’indisposizione, non avrebbe più continuato a cantare. Fortunatamente, Ruth Iniesta, star del secondo cast, si fa trovar pronta. Dotata di una voce pastosa, voluminosa, la Iniesta si precipita (è il caso di dire) sul palco abbastanza centrata, mostrando solo qualche durezza in acuto – ma le va indubbiamente perdonata. L’esecuzione della famosa aria di chiusura, «Ah! Non credea mirarti», mostra tutta l’arte della cantante, nei legati come nel fiato lungo; splendida la pirotecnica cabaletta, «Ah! Non giunge uman pensiero», alla fine della quale esegue un robusto fa sovracuto interpolato, per la gioia del pubblico. John Osborn canta un Elvino centrato, soprattutto nel II atto: il momento migliore della sua performance è, certamente, «Ah! Perché non posso odiarti», una cabaletta ricca di colori, dove l’interprete dà prova di una voce ben a fuoco e fluido nei passaggi. Questa di Osborn, squillante ma un po’ granulosa, a volte ha poca lucentezza nel passaggio di registro, ma conferisce un fraseggio convincente e l’interprete sa ‘bellineggiare’ bene nei lunghi fiati, come dimostra in «Prendi: l’anel ti dono». Roberto Tagliavini canta un Conte Rodolfo statuario vocalmente: voce splendida, emissione pulita e stentorea. Si potrebbe unicamente notare, paradossalmente, un’eccessiva freschezza per un carattere come questo, ma si perdona tutto a un’esecuzione di «Vi ravviso, o luoghi ameni» di tal fatta. La Lisa di Francesca Benitez è vocalmente colorata ed aggraziata, anche se dotata di uno strumento alquanto sottile; comunque, la sua cavatina «Tutto è gioia, tutto è festa» è assai ben riuscita e l’interprete presenta in scena un carattere di inusitata sensualità. La Lisa di Monica Bacelli è centrata nel canto e pienamente nel carattere a livello scenico; buono anche l’Alessio di Mattia Rossi.
In conclusione, questa Sonnambula lascia al pubblico romano una bella idea registica, non sempre, però, ben realizzata, né esente da polemiche (come testimoniano i copiosi fischi dopo la première), fortunatamente sorretta da una realizzazione musicale di tutto rispetto.