L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Don Pasquale in bianco e nero

di Antonino Trotta

Non si sforza molto per essere più di una ripresa di routine il Don Pasquale andato in scena al Teatro alla Scala: continua a piacere lo spettacolo ideato nel 2018 da Davide Livermore, pur zavorrato dalla bacchetta di Evelino Pidò che in buca guida i complessi scaligeri con poca leggerezza. Di routine, seppur lussuosa, il cast.

Milano, 25 maggio 2024 – Impermeabilità ai sentimenti, cupidigia, sfortuna, quanti fra si sono arrovellati il cervello per intuire le ragioni di una scapolaggine così persistente nella vita del povero Don Pasquale? Nessuno, ci si augura, data la totale ininfluenza di tal dettaglio nell’architettura drammaturgica di un capolavoro come quello uscito dalla penna del sommo Donizetti. Eppure, molto spesso, il talento di un regista, perché con Livermore sempre e comunque di talento si parla, si sostanzia proprio nella capacità di fornire risposte a domande che nessuno ha fatto. Qui, ovviamente, anche il verdetto ha nella messinscena il peso che merita, ovvero quello di pretesto per dare giro chiave all’intera macchina teatrale e giustificare qui e là quel tocco di LED-wall che dell’ultimo Livermore son costante cifra stilistica. Nato del 2018 e adesso ripreso per un appuntamento di lussuosa routine, il Don Pasquale di Davide Livermore conferma oggi come allora quanto felice e fruttuoso si riveli sempre l’incontro tra talento, mestiere e capacità di spesa: si potrebbe, in via teorica, fare a meno di tutto perché, in fondo in fondo, un’idea particolarmente originale, incisiva e inaudita, non c’è, eppure tutto quel che c’è, dal fantasma della mamma morta onnipresente alla decappottabile bianca svolazzante, dalla sfilata della sartoria Norina – i costumi di Gianluca Falaschi sono straordinari – all’atmosfera in bianco e nero di felliniana memoria, è mescolato con una sapienza tecnica, armonia ed equilibrio tali da garantire l’indispensabilità di ogni sfaccettatura all’economia complessiva della messinscena. Il teatro, come già scritto in altre occasioni, non va solo pensato, ma fatto. E Livermore, piaccia o no, sa farlo, e pure egregiamente.

Sfortunatamente, il bianco e nero che domina la scena si trasferisce tutto in buca, dove Evelino Pidò guida i magnifici complessi scaligeri in una narrazione musicale spesso non propriamente convincente. Data di fatto per assodata la qualità generica che da una bacchetta di tale esperienza ci si aspetta, a venir meno in questa lettura è la soave alternanza tra elegia e brio che del teatro comico donizettiano è poi colonna portante. Dinamiche nervose e scattanti, colori sempre pronunciati e mai debitamente sfumati, frasi talvolta prive di inebriante mordente, la concertazione di Pidò ci lascia qui con un senso di antipatica insoddisfazione per la distanza presa rispetto alla poetica attesa e per la mancanza di nerbo nell’alternative ad essa.

Anche il cast non eccelle per inventiva, pur essendo di lusso la locandina. Ambrogio Maestri è padrone assoluto del ruolo, e da tale ci porge un Don Pasquale più che rodato: la voce è bella, il fraseggio è curato, l’accento è brillante e l’attore coinvolgente. Discorso identico per Mattia Olivieri, Malatesta istrionico e vivace che si fa apprezzare per la qualità spiccata del canto e per la bella presenza scenica. Faticano di più l’Ernesto di Lawrence Brownlee, sì ineccepibile per tecnica e stile ma penalizzato dal confronto con una sala enorme e con una direzione in alcuni momenti invasiva, e la Norina di Andrea Carroll, troppo flebile per volume e laboriosa nella agilità a corredo e definizione della parte. Andrea Porta, un notaro, si fa infine notare principalmente per le doti attoriali. Eccellente il contributo del Coro del Teatro alla Scala istruito dal maestro Alberto Malazzi. Teatro strapieno, molti turisti, applausi per tutti con punte di acceso entusiasmo per Maestri o Olivieri.


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