La Fenice che vizia
di Francesco Lora
Il solito Don Giovanni di riferimento, alla terza ripresa nel teatro veneziano: progetto drammaturgico e allestimento scenico firmati da Damiano Michieletto, Paolo Fantin, Carla Teti e Fabio Barettin; formidabile autorevolezza nella concertazione di Robert Treviño; due eccellenti compagnie di canto, nelle quali spiccano Markus Werba e Alessio Arduini, Desirée Rancatore, Francesco Demuro, Carmela Remigio, Alex Esposito e Roberto De Candia.
VENEZIA, 19 e 25 maggio 2024 – È stato creato nel 2010 e ripreso nel 2014, nel 2017 e gli scorsi 16-25 maggio, per la bellezza di 41 recite complessive: il Teatro La Fenice fa strabene a non dimenticarsi di possedere quello che ha tutta l’aria d’essere l’allestimento d’eccellenza, nell’ultimo quarto di secolo, di quell’opera teatralmente inesauribile che è non una qualunque Fin de partie di Kurtág, ma addirittura Don Giovanni di Mozart. La regìa – tutti sanno – è di Damiano Michieletto, le scene sono di Paolo Fantin, i costumi di Carla Teti e le luci di Fabio Barettin, e il miracoloso consiste sia nel capolavoro scenografico del palazzo in continuo divenire, dalle mille porte e nessuna finestra, leggi il teatro-gabbia di un protagonista burattinaio delle identità altrui, sia – si diceva – nel fatto che questa lettura sembra appartenere ab origine ai suoi interpreti, pur nel loro avvicendarsi, tanto quanto costoro sembrano appartenere ab origine alla lettura stessa. È insomma lo spettacolo fatto per cadere sempre in piedi, per non stare mai né largo né stretto ai sagaci riassortimenti della compagnia di canto, e per risultare, infine, ogni volta più nuovo, là ove con malinconia abbiamo visto spuntare le rughe, per esempio, al Don Giovanni escogitato da Mario Martone nel 2002 per il San Carlo di Napoli e rispolverato la stagione scorsa tra Lombardia ed Emilia. Si registra un solo bemolle, giacché lo spaventoso rischio di perfezione deve sempre finir guastato da una qualche improvvida inezia: i recitativi secchi dopo la cavatina di Leporello e dopo il rondò di Donna Anna, utili soltanto a risolvere una cattiva liaison des scènes e spesso tagliati, rimangono giustamente al loro posto, mentre a finire assurdamente stralciato è quello di Don Giovanni e Masetto nella scena V dell’atto II, con perdita di uno snodo dell’azione – il protagonista lo mima nell’aria precedente: ma non è la stessa cosa – nonché della relazione tonale fra passi musicali contigui. Uno sciocco pasticcio che avrebbe avuto la più lapalissiana delle soluzioni: non commetterlo.
Di formidabile autorevolezza, nelle ultime nove recite, è anche stata la concertazione di Robert Treviño, che rispetto ai suoi predecessori – Antonello Manacorda nel ’10, Stefano Montanari nel ’14 e nel ’17 – ha trovato un’orchestra veneziana in continuo progresso tecnico e le ha offerto il contributo di un differente indirizzo poetico. Egli non intende, infatti, instillare vezzi di prassi esecutiva antica, allo scopo meno di effettuare un vero ripristino filologico che di dare alla partitura una fisionomia inusuale, bensì dà luogo a una solida, poderosa, smagliante lettura di tradizione, con la particolarità di mostrarsi perfettamente alfabetizzato là ove la tradizione oggi non basti più: sia nell’incisivo ricamare i preziosismi dei legni sia nello spalancarsi d’inferno del trio di tromboni, ecco dunque il morso di fraseggi Sturm und Drang, i timbri che puntano a distinguersi anziché a fondersi, fino all’evocazione delle croccanti meccaniche originali, anche senza abiurare gli strumenti odierni e anzi cavalcandone con profitto le facoltà.
Le compagnie di canto erano come al solito due, e come al solito così valorose, sia nei singoli elementi sia nel gioco di squadra, da escludere la sussistenza di una gerarchia tra l’una e l’altra. Basterebbe una singola ragione, determinante più che mai in Mozart, a spiegarne l’apparente insuperabilità: esse sono state costituite con interpreti i quali sono tutt’insieme ottimi vocalisti, ottimi attori e soprattutto forti della madrelingua italiana o almeno di una seria naturalizzazione linguistica. L’eccezione conferma la regola nell’austriaco Markus Werba, già protagonista quattordici anni fa e oggi addirittura più fresco e spigliato di allora. Il caso si ribalta in Alessio Arduini, un italiano di casa a Vienna, il quale era stato Don Giovanni nel ’14, ventisettenne, e come in quell’occasione era risultato ammirevolmente maturo, così in questa pare essersi immobilmente mosso, mentre gli altri invecchiavano, verso le soglie degli -enta anziché degli -anta. Entrambi gli interpreti pongono fuori discussione il discorso canoro e scenico: a turbare sarà allora, nello smagliettamento finale, che tutti e due – Werba ha già compiuto i suoi primi cinquant’anni – nascondano sotto il camicione una muscolatura da fotomodelli («non dipinta», garantisce la vicina di posto armata di binocolo). Gli anni sono invece passati per Alex Esposito, che nel frattempo è mutato per vocalità, repertorio, stile e presenza: siccome si sta parlando di un artista dall’astuzia luciferina, il suo Leporello è rimasto tal quale nell’idea della leporina balbuzie, ma è evoluto nella laida versione matura dello stesso personaggio, genialmente, e con la parola sempre più in primo piano su note mozartiane sì, ma ormai strettine per questo incontenibile animale da teatro. Il pensiero è completato dall’inedito Leporello di Roberto De Candia, che per continuità rimodula a proprio modo l’idea della balbuzie: per il resto, riesce a essere virtuosisticamente insieme il buffo della tradizione italiana e il sinistro servo espositiano, l’Arlecchino e il Pulcinella, dunque il saggio di un altra via per essere vero artista.
Zuzana Marková supera a sangue freddo le trappole della parte di Donna Anna, e con ancora più souplesse e pathos esse sono tenute al guinzaglio da Desirée Rancatore, il soprano, in attività da un trentennio, che qualche gufo vorrebbe dare per vocalmente spacciato: buoni tutti, la signora ha mezzi integri, personali, floridi e tali da farceli piacere, con plauso e gratitudine, ancora per diverso tempo. Similmente, circa la parte di Donna Elvira, si ammira l’energica eppure sofferta caratterizzazione datale da Francesca Dotto, che nel ’17 era invece stata Anna. L’altra interprete fa saltare il banco, poiché si tratta di Carmela Remigio, una che è tanto attrice e tanto cantante da poter sottoporre la parola e la musica a ogni stress che le passi per la testa, senza tuttavia uscire dal libretto e dalla partitura; se ne trae una lezione: l’artista sommo non cede al ricatto di scegliere una risorsa sacrificando l’altra, ma sa farle convivere, quand’anche sembrino dapprima escludersi a vicenda. Inconsueti nerbo, volume, densità e baldanza tenorili, se non una piena confidenza con i passaggi di coloratura, danno pregio ai due Don Ottavio, Francesco Demuro e Leonardo Cortellazzi. Tra i due Masetto, quello di William Corrò è disegnato con asciuttezza e quello di Lodovico Filippo Ravizza è più grossolanamente sbozzato. Giovanile, sorridente e incapace di petulanza è la Zerlina sia di Lucrezia Drei sia di Laura Ulloa: bastano poche parole, poiché la resa ottimale non ha bisogno di essere cervellotica. Per ultimo colmo di fortuna – anzi di merito nella programmazione artistica – anche la parte del Commendatore è risolta ricorrendo alla rocciosa autorità non di un vociferante bassaccio alla maniera germanica, russa o – più di recente – asiatica, bensì di un interprete, uno solo per tutte le recite, Gianluca Buratto, anch’egli conforme al misurato idiomatismo dell’opera italiana. Il solito Don Giovanni di riferimento, mai uguale a sé stesso, cui da lustri ci va viziando la Fenice.