L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Tosca, quella vera

di Francesco Lora

Al Maggio Musicale Fiorentino, un’impressionante lettura teatrale e musicale spezza la tradizione esecutiva di Tosca e riscatta il capolavoro di Puccini da una cronica banalizzazione. Concertazione di Daniele Gatti, regìa di Massimo Popolizio, parti di punta tenute da Vanessa Goikoetxea, Piero Pretti e Alexey Markov.

FIRENZE, 26 maggio 2024 – Una locandina poco altisonante, senza le Netrebko o le Yoncheva, i Meli o i Kaufmann e i Salsi o i Tézier. Fatto sta che la Tosca rappresentata all’86o Maggio Musicale Fiorentino, con cinque recite dal 24 maggio all’8 giugno, non solo è già conclamatamente lo spettacolo pucciniano dell’anno, nell’anno-anniversario dove i quantitativi pucciniani sono da overdose in barba ai qualitativi, ma anche è forse lo spettacolo dell’anno punto-e-basta, nonché, per certo, uno spettacolo che sgretola molte convinzioni dello spettatore e dello studioso, contraccambiando questi ultimi con una lezione teatrale e musicale che vale per la vita e l’avvalora. Detto più in breve: è la Tosca che dimostra dove le altre siano state fallaci, quale modello andrebbe ora seguìto e con quali mezzi, e come il capolavoro lo sia dieci volte più del creduto. Dal punto di vista più musicale che teatrale, ciò cade peraltro sulla scia non di vacche magre, ma di esecuzioni che hanno già segnato un entusiasmante balzo in avanti nell’esegesi della partitura: per esempio, quelle dirette da Riccardo Chailly nel 2019 alla Scala di Milano [leggi la recensione], da Zubin Mehta nel 2021 al MMF stesso [leggi la recensionee da Michele Mariotti l’anno scorso all’Opera di Roma.

La lettura musicale di Daniele Gatti merita il primo resoconto specifico, benché la compenetrazione col discorso registico e il lavoro dei cantanti-attori sia in verità totale e indistricabile. Non è un debutto in Tosca, come altri ha invece scritto: Gatti l’aveva già diretta nel 1999 al Comunale di Bologna, e già allora s’era distinto per acribia di concertazione. Il punto è che la lettura fiorentina risulta del tutto rinnovata rispetto sia al Gatti di venticinque anni fa, sia alla tradizione esecutiva di quest’opera, e un altro punto è che questo episodio prodigioso rientra in una fase benedetta da santa Cecilia: a dispetto delle recenti traversie gestionali del MMF, nessun altro direttore musicale in Italia sta attualmente dando una superiore prova di autorevolezza artistica, come testimoniano, fra il resto, il Don Carlo verdiano nella scorsa stagione d’opera fiorentina [leggi la recensione] e la Quarta di Mahler nel concerto inaugurale del festival in corso [leggi la recensione]. La ricetta sembra semplice, ma vicini alla sua attuazione, prima, erano andati solo il colossale Herbert von Karajan discografico del 1980 e lo zelante Riccardo Muti concertistico del 1991-92: esiti non ripetuti altrove dai medesimi. Eccola, la ricetta: quella di Gatti è una Tosca che sconvolge per logica; in apparente paradosso, è personalissima proprio in quanto oggettivamente condotta dentro un testo da scoprire anziché essere usurpata dal contro-testo della tradizione, banalizzato e convenzionale, ma ormai fossilizzato e insospettabile anche tra gli esperti. Negli aspetti macroscopici, si tratta di un’esecuzione continua, integrale e incorrotta: non ci sono le fermate volontarie della bacchetta, dopo le romanze del tenore, per indurre l’applauso del pubblico a dispetto di un discorso musicale ininterrotto; non è praticato l’insensato taglio del verso, «Risolvi! – Mi vuoi supplice ai tuoi piedi!», che con due misure stupende fa da ponte tra «Vissi d’arte» e il seguito dell’atto II; la frase non è mai deformata da “corone” ad libitum né il cantato è mai sostituito dal parlato (i vari «Assassino!…», «… Quanto? – Quanto?… – Il prezzo!…», «E avanti a lui tremava tutta Roma!»). Poi, e qui si passa dalla normativa preliminare alla poetica di Gatti, tra mille altre cose che si dovrebbero dire ma senza trovarne le parole: un’oscillazione agogica perenne, instancabile ed estenuante, lungo la quale Tosca prende a respirare con naturalezza, affrancandosi dal metronomo senza però incorrere nella calligrafia; la restituzione d’innumerevoli sottigliezze nella strumentazione, tradizionalmente annegate in altre, pigre e basse priorità, fino a rivelare un’affinità wagneriana, rivisitata con sensualità latina, la quale è sempre sospettata, da taluni asserita e però mai così effettivamente e nitidamente ascoltata; l’estetizzazione assoluta, infine, che però è pronta a farsi da parte quando meno te l’aspetti, come nell’alba romana all’inizio dell’atto III, “poema sinfonico” qui sporcato da scampanii dal realismo tutt’altro che edenico. Alle somme: ci si ritrova nudi nello scoprire, mediante Gatti, che quella Tosca ascoltata prima tante volte, in situazioni privilegianti, e persino studiata in prima persona sulla partitura, era in verità un modesto schizzo, un enigma non risolto.

Secondo capitolo: si parla del nuovo allestimento con regìa di Massimo Popolizio, scene di Margherita Palli, costumi di Silvia Aymonino e luci di Pasquale Mari, ossia di uno spettacolo architettato in dignitosa economia e nella probabile memoria di Luca Ronconi, del quale Popolizio è stato collaboratore fidato e per il quale la Palli aveva ideato, nel 1997, un impianto di ben altro virtuosismo prospettico, alla Scala, per un’altra Tosca. Nei forum internautici fa pena leggere gli sfoghi di quei melomani che, più integralisti di Francesco Lora, si accalorano contro l’avvenuta trasposizione spazio-temporale dall’epoca napoleonica agli scorsi anni Trenta e dal centro storico di Roma alla nuova periferia dell’EUR: davanti a una lettura teatrale memorabile nella sua complessità, l’attenzione non è infatti mai richiamata in substantia da tale aspetto, marginalmente lasciato al vestiario, alle architetture e al fatto che la cantata di Floria, nell’atto II, esca da una diretta radiofonica anziché salire dal sottostante piano nobile di Palazzo Farnese. A voler fare il Beckmesser, un errore c’è, ma uno solo e sempre noiosamente il solito: si allude alla confusione nel gestire l’iconografia ecclesiastica, qui goffamente espressa in un altare rivolto al popolo e post-conciliare, in un’improbabile processione su due file convergenti e in una sregolata mescolanza di abiti religiosi e paramenti sacri. Il resto, invece, è una meraviglia di analisi drammaturgica e di realizzazione attoriale. Qualche esempio è possibile e doveroso, benché chi debba scrivere di tanta enormità si senta come un acquaiolo munito di cesto di vimini. Dettagli dall’atto II: la lama è raccolta dalla protagonista non tra le stoviglie di tavola del Barone Scarpia, ma tra gli strumenti di tortura usati poco prima sul corpo del suo Mario Cavaradossi; la pugnalata mai s’è vista più realistica e feroce, eppure femminilmente elegantissima, col tiranno che muore rannicchiato anziché supino ed ella che lo preme col tallone e lo ribalta; la pantomima dei candelabri e del crocifisso, posti presso e sul cadavere, è infine aggiornata con l’immagine della donna che scaglia sullo stupratore, con disprezzo, la propria croce pendente. Sostanza dall’atto III: cento registi, meditando sul dramma, ci hanno già assicurato che Mario ha compreso di essere destinato a una fucilazione reale anziché simulata, e che il suo ultimo gesto di pietà verso l’amata, illusa di aver comprato la liberazione di lui, sia tacerle fino all’ultimo la verità; bene: il problema è che questa lancinante intuizione l’abbiamo sempre sentita raccontare, ma non vista realizzata in modo chiaro e inequivocabile. Nella Tosca di Firenze, per la prima volta o quasi, avviene il miracolo insieme registico, direttoriale, canoro e attoriale: si vede e ascolta Floria che pregusta, quasi ridendo tra sé, con l’adrenalina della teatrante, l’ansia dell’ingenua e la naturalezza di un film o la scioltezza di un musical, l’imminente recitazione di Mario che dovrà cadere sotto gli spari a salve. Mai era stata attuata più compiutamente, prima, la tragedia della diva teatrale che tuttavia nulla ha compreso di quella messinscena; mai era stato più netto che Tosca rappresenta non la storia d’amore, ma lo Stato di polizia, la condanna a morte, il caso di un desaparecido che ha scoperto tardi il prezzo di fare inutilmente l’eroe e quello della sua donna uscita fuori tempo massimo dal confortevole orizzonte degli idola theatri. È dai tempi della Bohème di Graham Vick al Comunale di Bologna, nel 2018, che mancava una così splendida manifestazione di quale lavoro un regista, come Popolizio, dovrebbe oggi sempre saper condurre onde illustrare l’attualità di opere con decenni e secoli sul groppone.

Si alludeva alla realizzazione attoriale, attribuita al regista, condivisa col direttore e soprattutto assimilata e resa concreta, oltre ogni aspettativa, dai cantanti. Dalla cantante, in particolare: se si volesse infliggere al soprano Vanessa Goikoetxea una vivisezione vociologica, si potrebbe uscirne trionfanti con una sadica serie di mende naturali e tecniche; chi procedesse per tale via, però, paleserebbe anche la propria nefandezza, imperizia, ridicolezza: da questa statunitense quarantatreenne, affacciatasi solo di recente a importanti scene italiane, s’impara di non aver mai conosciuto, al confronto, una Tosca più inebriante di charme, moderna, giovanile, spontanea, capace di tradurre in fatti le maniacali richieste di Gatti e Popolizio e d’intonare un «Vissi d’arte» tanto più indimenticabile per l’essere spogliato d’ogni esibizionismo, insomma l’artista fuori dalla convenzione tramite il lavoro della quale viene mandata in crisi – e sono parole grosse – la pertinenza d’approccio delle massime sue colleghe nell’ultimo secolo. In detto orizzonte, rivelatorio è anche il Mario interpretato dal tenore Piero Pretti: tecnicamente ferratissimo, comunicativamente grigiastro, nondimeno toccante nel gesto, risulta ideale proprio per l’astensione dal profilo eroico e per la ricaduta nel mondo dei mediocri, dei perdenti, insomma degli uomini trascinati e distrutti dagli eventi, anonimamente, cui il teatro contemporaneo – dunque anche Verdi, dunque anche Puccini – ha rivolto le sue primarie attenzioni. Meno all’altezza della straordinaria circostanza è invece il pur rinomato baritono Alexey Markov, con la più banale delle diagnosi: manca vistosamente di confidenza con la lingua italiana e con la sua prosodia, così da incontrare nelle parole di Scarpia non un fruttuoso sostegno ma un impacciante ostacolo, fino all’incompatibilità di linea con un’organizzazione canora tipicamente slava. Quanto al comprimariato, esso rimane su un piano di fondo, con più educazione che carattere: Gabriele Sagona come Cesare Angelotti, Matteo Torcaso come Sagrestano, Oronzo D’Urso come Spoletta, Dario Giorgelè come Sciarrone, Cesare Filiberto Tenuta come Carceriere e una voce bianca, per il Pastore, differente a ciascuna recita. Ottimi i cori. Sull’orchestra, c’era da credere di aver esaurito ogni possibile lode commentandone la Turandot con Mehta [leggi la recensione]; invece no: essa ha trovato spazio per volare ancora oltre.


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