Il peso della precarietà
di Luigi Raso
Delude l'attesa Luisa Miller al Teatro di San Carlo, in cui prevale un senso di approssimazione e precarietà aggravato da diverse ombre nel cast.
Riavvolgendo il nastro della serata, malgrado il successo tributato dal pubblico, ci si accorge che i segni premonitori di un esito eufemisticamente non memorabile si sarebbero potuti scorgere non appena entrati in sala. Infatti, pur essendo questa Luisa Miller proposta in forma di concerto, l’Orchestra del San Carlo siede nella buca. E fin qui, nulla di nuovo: alla stessa disposizione si ricorse, poco più di due anni fa, in occasione di una apprezzata Sonnambula (qui la recensione). Stasera però, i professori indossano abiti borghesi in luogo dei completi scuri d’ordinanza.
In via informale, dunque, si apprende che l’abbigliamento estremamente casual è dovuto ad un’agitazione sindacale: l’Orchestra protesta per le poche prove concesse dalla direzione artistica del Teatro per preparare questa Luisa Miller e per le mancate assunzioni di personale artistico nella pianta organica della Fondazione. Tuttavia, non si comprende perché non sono stati comunicati al pubblico, tramite lettura o distribuzione del comunicato, i motivi dell’agitazione sindacale. Ad ogni modo, pur evitando di farsi suggestionare dalle cause che hanno indotto l’Orchestra a questa decisione, bastano i primi venti minuti di Luisa Miller per comprendere quanto sia fondato il primo motivo di agitazione. Sul secondo, quello connesso alla mancata assunzione del personale artistico, in mancanza di conoscenza diretta e approfondita dei fatti ci si astiene da ogni giudizio.
Dall’ascolto, purtroppo, si percepisce ben presto che questa Luisa, attesa - sia perché assente dal San Carlo dal 2015, sia perché sancisce il debutto di Nadine Sierra nella parte eponima - è eseguita con un approccio approssimativo: un’esecuzione che manca di rifinitura generale e, soprattutto, di un livello accettabile di approfondimento.
Il direttore Daniele Callegari, al suo debutto al San Carlo, ha il merito di fare tutto il possibile per portare a casa l’esecuzione, per dare incisività alla partitura di Verdi; tuttavia può poco contro un percepibile pressapochismo, l’approssimativa gestione delle dinamiche e, soprattutto, dell’equilibrio sonoro tra Coro e solisti.
Diretto da Fabrizio Cassi, il Coro sfoggia spiccata compattezza sonora, è incisivo e con una sensibile dose di forza drammatica; però, spesso risulta poco smussato e fluido. Si ha la sensazione che il lavoro preparatorio sia stato lasciato allo stato di abbozzo e che, se fosse continuato, avrebbe condotto ad una resa più raffinata.
Discorso analogo per la prova strumentale, la cui prestazione è salvata dall’estremo professionismo di un direttore esperto come Callegari e dall’eccellente livello tecnico di tutta la compagine. Si è però lontani dallo standard qualitativo dell’Orchestra del San Carlo, si avverte genericità nell’articolazione, nel fraseggi. Tutta l’esecuzione procede, superficialmente, pur senza mende eclatanti.
Risulta difficile pensare, per quanto è ampio il divario qualitativo tra le due esecuzioni, che tra il meraviglioso dittico Il castello di Barbablù e La voix humaine e questa Luisa Miller intercorrano soltanto pochi giorni (qui la recensione). Oggi si registra infatti approssimazione, difficoltà, seppur nel complesso decentemente superata, e ansia nel tenere unito lo spettacolo: le compagini artistiche del San Carlo, per le loro qualità, meritano ben altra attenzione e considerazione. Luisa Miller avrebbe meritato maggiore preparazione e cura.
Ma ad appesantire ulteriormente la cappa di pressapochismo che aleggia su quest'opera contribuisce, e in modo determinante, il cast vocale, il quale schiera star mondiali di prim'ordine.
Gianluca Buratto è un Conte di Walter dalla linea vocale spesso non pulita, dall’emissione poco curata che tende anche ad alterare, per lo sforzo continuo impresso, il timbro di per sé suggestivo. L’interpretazione, poi, è poco curata, forse per l’eccessiva attenzione che Buratto riserva allo spartito: ed è questa una costante, purtroppo, di molti componenti del cast.
Michael Fabiano è un Rodolfo ben poco elegante per il costante uso, e abuso, di un’emissione sforzata: il suo Rodolfo cerca accenti eccessivamente enfatici nel tentativo, non riuscito, di restituire un’interpretazione credibile del protagonista maschile. Fabiano, invece, appare estraneo, sin dall’esordio in scena, alla nobiltà del canto verdiano, puntando tutte le sue fiches sulla forza, sull’enfatizzazione del registro acuto e sull’ispessimento vocale.
Bel timbro e corposità dei mezzi, al netto di un registro grave non sempre adeguatamente pastoso, connotano la buona prova del mezzosoprano Valentina Pluzhnikova nei panni di Federica.
Emissione molto, molto poco accurata e linea di canto a dir poco problematica quella di Krzysztof Bączyk che delinea un Wurm sempre ringhioso.
Frano Vassallo, che veste i panni del vecchio Miller, ad una diffusa uniformità interpretativa affianca la sua grande esperienza, sfoggia un registro acuto tendenzialmente compatto e solido. Pur con dei distinguo per il fraseggio non troppo analitico, riesce a restituire, a differenza degli altri componenti del cast, l’idea di cosa sia il canto verdiano, del suo stile, dell’incisività e dell’importanza da attribuire alla parola cantata.
Attesissima per questa ripresa di Luisa Miller, Nadine Sierra purtroppo non dà l’impressione di aver preparato il debutto in Luisa con l’attenzione dovuta e che ci si aspettava da un’artista del suo calibro: lo sguardo è incollato sullo spartito, la dizione non è sempre chiara, l’interpretazione è superficiale. Ben presto, poi, la scrittura e il peso specifico vocale richiesto appaiono al di là delle attuali caratteristiche della Sierra: il volume è esiguo, il timbro è pur sempre malioso, ma negli affondi drammatici la sua vocalità soffre alquanto. Al netto di qualche suggestivo filato c’è poco di interessante, sebbene la linea di canto proceda correttamente. Nadine Sierra dà il suo meglio, come era prevedibile, nelle parti in cui la scrittura anticipa le colorature che caratterizzeranno quella di Gilda del successivo Rigoletto (del 1851); ma la parte di Luisa richiede anche polpa vocale più consistente e un’introspezione psicologica che dalla lettura della Sierra non emerge.
Nei ruoli secondari fanno bene i due artisti del Coro Sabrina Vitolo, quale Laura, e Salvatore De Crescenzo, un contadino.
Al termine, molti applausi per tutti i protagonisti di questa Luisa Miller che aveva indotto a sperare in un esito più lusinghiero di quello in concreto ottenuto.