Aspettando il Walhall
di Roberta Pedrotti
Dedicata al compianto mecenate Marino Golinelli, la prima tappa del nuovo Ring wagneriano del Comunale di Bologna con la direzione di Oksana Lyniv e un cast equilibrato ottiene un buon successo, ma non appaga tutte le aspettative.
BOLOGNA 12 giugno 2024 - Una suoneria più flebile, un paio di volte a cavallo del primo levarsi della bacchetta di Oksana Lyniv, poi, nitido e forte, il trillo imperioso dei vecchi telefoni SIP. Sembrerebbe quasi fatto apposta, il disturbo alle battute iniziali del Rheingold al Manzoni di Bologna, se non fosse che, venendo da un paio d'ore di treno, l'abitudine a disinteressarsi del mondo circostante e imporre al prossimo notifiche, jingle, l'audio di giochi, reel, serie a tutto volume è ormai consolidata, tanto che lo stare in silenzio, l'usare gli auricolari, chiedere un po' di pace non è nemmeno percepito come educazione e buon senso, ma come un'eccentrica eccezione di cui stupirsi e infastidirsi.
Così, anche in sala, mentre dovrebbero prender forma sonora le onde del Reno in cui giocano le ninfe, l'oro riluce e striscia Alberich. Sarà, forse, per questo che la concentrazione non sembra subito completa e tutto lo sviluppo del quadro iniziale risulta un po' appiattito. Man mano che l'azione incalza – giacché questa è una delle opere più dinamiche di Wagner, meno incline di altre a far prevalere narrazione e riflessione – anche Lyniv pare accendersi maggiormente, aderendo al testo. Tuttavia l'ascesa al Walhall riapre la strada ai dubbi su una concertazione che, al di là degli iniziali disturbi esterni, non sembra andar molto oltre un corretto dipanarsi della partitura. È chiaro che la direttrice musicale del Comunale, con la sua formazione radicata a Monaco di Baviera al fianco di Kirill Petrenko e la sua consuetudine con il podio di Bayreuth, conosca e padroneggi appieno questo linguaggio, che tutto sia ben controllato, che i temi siano compresi e gestiti con efficacia. Tuttavia, anche per questo, dal suo approccio alla Tetralogia, per di più in una città di storica vocazione wagneriana dove il Ring mancava da trentasette anni, ci si aspettava qualcosa in più. Quantomeno una lettura più decisa, a prescindere dalla strada scelta: magniloquente e mitica, epica e narrativa, lirica, aguzza e critica, fiabesca, borghese, psicanalitica e astratta... Al momento è difficile interpretare cosa Oksana Lyniv intenda mettere in luce con il suo Ring, quale sia la chiave di questa Tetralogia. Per questo, la gioia nel veder programmati finalmente il Prologo e poi le tre Giornate del ciclo si combina al momento con un po' di amaro in bocca di fronte a un risultato, al momento, non particolarmente interessante o stimolante. Stretto fra due produzioni operistiche di portata non indifferente (Don Giovanni e il Trittico), dopo un concerto sinfonico assai impegnativo e faticoso (Bologna, concerto Dendievel/Maltempo, 06/06/2024) e appena prima di un altro pure impegnativo con Sibelius, Šostakovič e Schubert, forse questo Rheingold avrebbe avuto bisogno di più tempo per essere preparato e approfondito a dovere. Tanto più che in forma oratoriale la cura delle sfumature coloristiche e dinamiche si fa ancor più determinante, mentre a fronte delle iniziative dei cantanti nella recitazione e di alcuni lievi giochi di luce vien naturale chiedersi perché non si sia provato a fare un passo in più con una visione semiscenica compiuta.
Nella sostanziale correttezza dell'insieme e nell'impegno profuso dall'orchestra di fronte al gesto sempre netto e rigoroso di Lyniv, l'opera si regge soprattutto sulle prove convincenti di un cast omogeneo. Il Wotan di Thomas-Johannes-Meyer è forse l'elemento meno incisivo, con il suo registro grave un po' troppo fioco, ma la sua discrezione è ben compensata dall'imponente Alberich di Claudio Otelli, una creatura dapprima miserabile, rabbiosa ma debole, poi tiranno accecato dal potere dell'anello che anche nella voce tuona ora tracotante. Cornel Frey è un Mime ben delineato, pavido e non macchiettistico, al pari del Loge sarcastico di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke; ai due tenori caratteristi si unisce lo squillante, luminoso Froh di Paolo Antognetti, in una bella evoluzione wagneriana rispetto al già apprezzato Steuermann nel Fliegende Holländer. Lo affianca il Donner franco e altero di Liviu Holender. Buona anche la differenziazione fra il più ingenuo Fasolt (Sorin Coliban) e il calcolatore Fafner (Wilhelm Schwinghammer). Sul versante femminile, dopo le Figlie del Reno (Yulia Tkachenko, Martina Ogii, Egle Wyss) si susseguono con efficacia alla ribalta la concreta Fricka di Atala Schöck, la dolcissima Freia di Sonija Šarić, la suadente Erda di Bernadett Fodor. Insomma, una compagnia di buona qualità, affiatata anche sul piano espressivo per rendere un intreccio ricco di topoi fiabeschi e folklorici ma già proiettato – specie con senno di poi che nel riconoscere i Leitmotive abbraccia le evoluzioni che avranno – all'immane, prismatica costruzione dell'intero ciclo. Proprio per questo, come insegna la costruzione del Walhall, se le basi sono solide e le premesse invitanti, per questo ritorno del Ring a Bologna sarebbe stato legittimo aspettarsi una rifinitura maggiore, auspicare la fioritura dalle fondamenta di un meraviglioso palazzo e non solo di un robusto edificio. In ottobre arriverà Die Walküre e speriamo di veder coronate speranze dopo questo avvio un po' in sordina.