L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Spenta, discontinua, alterata, in landa desolata

di Luca Fialdini

Il Festival Puccini chiude il 2024 con un evento speciale esterno al cartellone della 70^ edizione, una ripresa della Madama Butterfly nell’allestimento di Vivien Hewitt

TORRE DEL LAGO (LU), 31 agosto 2024 – Il cartellone del 70° Festival Puccini si è felicemente concluso completando quell’ideale arco nell’universo operistico pucciniano nato dalle Willis e dall’Edgar, proseguito in ordine cronologico fino a Tosca e che infine ha compiuto un balzo fino alla fiaba cinese. Tuttavia il teatro all’aperto di Torre del Lago concede al suo pubblico un «evento speciale», chiamiamolo pure fuori programma: Madama Butterfly che torna ancora una volta nell’ideazione scenica di Vivien Hewitt.

Un’ideazione che non riesce a convincere: questa arena desolata tutto sa fuorché di Oriente, indipendentemente dall’ambientazione nel mondo reale o meno. Le scene di Kan Yasuda non sono suggestive, sono semplicemente spoglie; si capisce l’intenzione di lavorare sull’essenziale e si può ben dire che questo vocabolo trova una felice consonanza con la partitura pucciniana, tuttavia una scena per potersi definire essenziale deve presentare qualcosa mentre sull’enorme palco non c’è assolutamente nulla all’infuori di un gruppo scultoreo in marmo (materiale invero tipicamente giapponese) e una bianchissima discesa. Meglio nel secondo atto quando arriva la grande struttura in pietra a tre colonne a cui, solo dopo l’intermezzo, se ne aggiunge una seconda a due e già così la scena acquista una sua presenza e una sua caratterizzazione: c’è davvero poco materiale scenografico e di certo siamo lontanissimi dai presepi zeffirelliani, ma aggiungendo solo queste due strutture si può rilevare come la scena diventi viva e la presenza di grandi superfici renda pure possibile effettuare un uso suggestivo delle luci di Gianni Paolo Mirenda. Non migliorano la situazione i costumi di Regina Schrecker, molto poco nipponici finanche grotteschi (Goro subisce il trattamento peggiore, degradato da nakodo a parcheggiatore abusivo).

In generale l’apparato visivo è molto spento, complice anche la mancanza di una effettiva lettura drammaturgica. Si ha la sensazione di assistere a un’ambientazione che differisce dal libretto solo per la mancanza di riferimenti precisi al mondo reale, dall’ambiente all’architettura, ma che questa decisione non abbia influito in alcun modo sull’interpretazione del testo; difatti, se si eccettua l’impianto scenico, questa è una Butterfly normalissima dove non si aggiunge nulla di quello che dovrebbe essere il lavoro del regista.

Diverse le discontinuità nella realizzazione musicale. La direzione di Jacopo Sipari di Pescasseroli interviene molto sulla partitura, da una parte proponendo una marcatura importante delle dinamiche, dall’altra cambiando il verso di alcune forcelle, sostituendo dei forti con dei piani fino ad accorciare alcuni pedali strumentali (ad esempio il rivolto di mi maggiore di flauti, clarinetto e clarinetto basso sulle parole «Lo zio bonzo nol sa»); la ratio da intendersi è quella di ricavare un’interpretazione stilizzata – volendo anche cameristica – per avvicinarsi alla cultura giapponese, ma forse c’è una via meno traumatica nei confronti della partitura e in ogni caso l’operazione sembra più adatta a un teatro chiuso. Ad ogni buon conto Sipari si segnala per la scelta di tempi adeguati sia al canto sia alla drammaturgia, offrendo sostegno ai solisti e unitarietà fra buca e palco. L’Orchestra del Festival Puccini non è al massimo della forma e l’incipit fugato è il testimone di scarsa coesione, ma la sua prestazione è in crescendo segnatamente dalla scena nuziale fino a un completo riallineamento al secondo atto, peraltro con alcuni passi particolarmente riusciti: i gesti aviani di sedicesimi dei legni all’ingresso di Yamadori che di solito non conoscono questo rilievo, l’intero preludio alla seconda parte del secondo atto, il bel disegno di sestine di viole e violoncelli sotto a «Le sa quella Dea le parole che appagan gli ardenti desir?», così come gli splendidi soli del trio violino, viola e violoncello all’entrata di Cio Cio-san.

Ancora una volta il Coro non è all’altezza delle aspettative e nella grande scena del primo atto – in particolare nei vari bisticci tra le sezioni – si avverte una netta instabilità. C’è da dire che come al solito il coro a bocca chiusa è ben eseguito e sortisce un grande effetto, però il livello dimostrato in questa occasione e, in generale, nelle date dell’edizione odierna del Festival non può che destare qualche perplessità.

Le discontinuità si ravvisano anche in un cast costruito non nel miglior modo possibile. Complessivamente i ruoli di contorno registrano una prova positiva, da Maria Salvini (La madre) a Greta Buonamici (La zia), passando per la non scontata presenza di Yakusidè interpretato da Rocco Sharkey, mentre Nicholas Ori è forse un po’ troppo cresciuto per vestire i panni di Dolore. Validi anche Alessandro Ceccarini (L’ufficiale del registro) ed Enzo Ying (Il commissario imperiale), con un’incisiva presenza – soprattutto vocale – dello Zio bonzo ritratto con efficacia da Gaetano Triscari; all’interno del gruppo dei comprimari spiccano senz’altro il Principe Yamadori, un’occasione per Italo Proferisce di far sfoggio di un timbro brunito e di una solida linea vocale, e l’ottima Claudia Belluomini che tratteggia una Kate Pinkerton dove canto e recitazione sono dello stesso, alto livello.

Manuel Pierattelli maneggia con cura il suo Goro, proponendo un mezzano cinico per vocazione, untuosamente servile verso coloro che hanno denaro, tuttavia una buona idea attoriale non compensa le evidenti difficoltà di emissione e di intonazione. Si vuole pensare alla proverbiale cattiva serata, resta il fatto che una prova del genere è molto difficile da giudicare.

Spinosissima la questione delle due figure associate ai protagonisti: Sharpless e Suzuki esulano con decisione dalla cornice angusta del comprimario e per essere compresi nella loro essenza devono essere necessariamente accostati al loro personaggio di riferimento, creando così una geometria non euclidea in cui Sharpless si associa a Pinkerton come Suzuki a Cio Cio-san. Se Butterfly non può (o non sa) concedersi degli autentici cedimenti emotivi, Suzuki può dar voce – almeno in parte – a quegli insanabili turbamenti dell’animo che la sua padrona non esterna in modo compiuto; Sharpless è invece l’estremo opposto di Pinkerton e in effetti Sergio Bologna ha scelto correttamente di connotare il console con tratti asciutti e maturi, dallo stampo morale nobile ma anche paterno nei confronti di Cio Cio-san. Quello che manca a Bologna sono il carisma e la capacità di tener testa – in termini baritonali – al protervo dongiovannismo del tenore, in breve la forza di porsi quale dialettico, netto contrasto ad esso; inoltre sfugge totalmente l’altra caratteristica del personaggio, ossia la capacità di superare contrasti e incomprensioni fra le due culture, con la presunta superiorità dell’Occidente sull’Oriente. Anche lo strumento vocale ha i suoi limiti e se da un lato si può contare su un fraseggio curato, dall’altro c’è la sgradevole tendenza ad aprire i suoni nel registro acuto, cosa che inficia sensibilmente anche la dizione.

Anna Maria Chiuri si dimostra consapevole delle molte insidie celate sotto lo yukata di Suzuki; molto appropriato il fervore con cui celebra riti immutabili e remotissimi, unica fra i personaggi mostratici a perpetuare il dolore antico di una civiltà millenaria. Chiuri si distingue – come la stessa Butterfly – nella funzionale declinazione del cosiddetto «canto di conversazione» e per il contegno recitativo che dà voce all’emotività senza sbavature macchiettistiche. Anche in questo caso c’è però un elemento fondamentale che non si è rivelato nel corso della rappresentazione, vale a dire l’unione quasi simbiotica fra Cio Cio-san e Suzuki: senza questa la spirale che conduce alla catastrofe non si carica della necessaria energia per la deflagrazione finale e il dramma non viene offerto in tutta la sua potenza.

Poco entusiasmante Vincenzo Costanzo; il suo Pinkerton può contare su una buona presenza, fatta eccezione per qualche gesto scenico opinabile (dopo aver corso a perdifiato per tutta la scena, non è un granché restarsene in un angolo a gridare «Butterfly!» senza muovere un dito), tuttavia l’espressività è davvero povera. Il «ma intanto finor non m’hai detto che m’ami» viene gestito con una certa intenzione, ma questa non riesce a filtrare nel canto; in più il timbro ha indubitabilmente un bel colore e nel registro grave la vocalità non perde mai l’appoggio, ma non appena si sale un po’ è difficile non percepire la fatica, come nel caso di «ti serro palpitante, ah» dove l’interiezione corrisponde a un sol per scendere al fa sul «vien!», pertanto ci si trova ancora nel registro comodo muovendosi pure per grado congiunto, senza parlare dei respiri presi anche inopinatamente. Eventuali danni nella puntatura finale del duetto sono stati scongiurati dal soprano che ha sparato un do acuto così ben piazzato da coprire in toto il tenore.

La puntatura al finale del primo atto è solo un dettaglio della ragguardevole prova di Valeria Sepe nel ruolo del titolo. La sua Butterfly, in particolare dopo il primo atto, concede davvero poco all’istinto emotivo e proprio per questo gli squarci patetici acquisiscono un impatto straordinario. Ci sono alcuni aspetti perfettibili, ad esempio l’aria del secondo atto avrebbe potuto allentare un poco le maglie della corazza, si osserva inoltre che nel registro grave il suono tende a perdere di rotondità; resta il fatto che Sepe ha gestito un ruolo monstre come questo con grande intelligenza, proponendo un’interpretazione coerente con la partitura e l’allestimento. Davvero pregevole la realizzazione vocale, con un’attenzione al dettaglio del fraseggio in relazione alla parola scenica, i filati trattati con gusto e la generosa apertura verso l’acuto in cui il suono si arricchisce di armonici: Sepe ha una evidente facilità in questa regione della gamma e forse proprio per questo non indugia in manierismi ed eccessi vari, piuttosto preferisce confermare il controllo sullo strumento per mantenere le molte frecce al suo arco al servizio dell’idea musico-drammaturgica.

Al termine di quest’ultima prima del 2024 non è mancato l’apprezzamento del pubblico, in particolare verso il duo protagonista.


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