Arte, artista, artificio
di Roberta Pedrotti
La nuova produzione di Benvenuto Cellini con la direzione di Giampaolo Bisanti e la regia di Barbora Horáková Joly convince per qualità musicale e coerenza teatrale.
DRESDA, 30 agosto 2024 - A pochi passi dalla Semperoper, la Grünes Gewölbe (Volta verde) custodisce nell'iperbole illusionistica barocca delle sue sale quel che resta della fenomenale collezione di preziosi della corte dei principi elettori sassoni. Quel che resta non solo dopo il bombardamento del febbraio 1945, ma anche dopo traversie secolari, come la crisi che con la Guerra dei Sette anni costrinse a fondere ori e argenti. Si tratta, ciò nonostante, di una raccolta che abbacina e quasi sconcerta, pendant ideale all'opera dedicata a quello che è forse il più grande orafo di tutti i tempi, Benvenuto Cellini, nella cui personalità mitizzata di genio visionario certo si specchiò Berlioz.
Oggi la regista Barbora Horáková Joly e il drammaturgo Benedikt Stampfli ripensano all'artista ribelle, audace, incontrollabile, esplosivo riportandolo in un mondo postmoderno in cui potremmo vedere i giorni nostri, con i riferimenti immancabili alla AI, ma collimano in un pop fantascientifico riferimenti anche a Metropolis di Lang, a Andy Warhol, Jeff Koons, tecnologie e avanguardie figurative e teatrali. Balducci è un conservatore à la page per il quale l'arte moderna è un buon business e un buon investimento d'immagine, ma senza esagerare con le stramberie. Per cui va benissimo Fieramosca con la sua pop art ormai innocua e commerciale, si può andare ad assistere a un happening carnevalesco con la figlia finché questo non trascende i limiti della decenza, non si può ammettere un soggetto come Cellini, almeno prima che le sue follie siano consacrate dal successo. Aida Leonor Guardia (scene), Eva Butzkies (costumi), Arne Walther (collaborazione artistica), Stefan Bolliger (luci), Sergio Verde (video) e Juanjo Arqués (coreografie) completano la squadra creativa di uno spettacolo ricchissimo sul piano iconografico.
La produzione è fresca di debutto, inserita in un percorso dedicato ai rapporti fra Berlioz e Dresda dalla precedente gestione della Semperoper, e la ripresa di fine estate ripropone la locandina della première. Sul podio troviamo così Giampaolo Bisanti, cui spetta il compito insidioso di maneggiare un'opera indefinibile, sospesa fra l'originale progetto di opéra-comique e tentazioni di grand opéra, oggetto di continui rimaneggiamenti (si rappresenta qui la versione di Weimar in tre atti), quasi assimilabile ai Contes d'Hoffmann (la cui fonte letteraria prese forma proprio qui, sulle rive dell'Elba) per la presenza di comicità, morte e un'apoteosi finale e agrodolce dell'artista. Le innumerevoli difficoltà di una partitura spregiudicata non pongono problemi ai complessi della Semperoper: la Staatskapelle guarda serena alla scrittura di Berlioz e superato con nonchalance il dato tecnico può esibire il suo sensibile ventaglio coloristico; il coro passa da Der fliegende Holländer (preparato da Jan Hoffmann) al Benvenuto Cellini (con il maestro Benedikt Stampfli) con pari idiomaticità, compattezza e ricchezza di suono, franchezza di fraseggio e coinvolgimento scenico. Potendo contare su questa macchina perfettamente oliata, Bisanti imprime alla sua concertazione una gradita compattezza teatrale senza perdere l'estroversa varietà di registri espressivi.
La compagnia di canto non allinea superstar, ma dimostra che sia possibile superare il timore reverenziale che opere pur oggettivamente complesse come questa possono suscitare. Ecco allora che Anton Rositskiy non parrà l'epifania di una divinità tenorile, ma affronta senza incertezze la parte scritta per Gilbert Duprez, non manca all'appuntamento con l'acuto, mostra buone intenzioni dinamiche, abbraccia sia le malinconie e i sogni bucolici sia l'estasi creativa e la spavalderia guascona di Cellini. Bene anche l'energica Teresa di Tuuli Takala, che con l'amato condivide la passione creatrice e si diletta di pittura, e l'Ascanio di Štěpánka Pučálková, voce adamantina e ben calata nei panni di un assistente automa. L'ipocrisia di Balducci spetta ad Ante Jerkunika, mentre Jérôme Boutillier ispira simpatia con il suo stralunato Fieramosca. Tilmann Rönnebeck veste i panni di Papa Clemente VII e la pacata solennità del canto sostiene viepiù la carica satirica che da Berlioz passa dritta dritta a uno spirito libero e mordace di pura eredità luterana: paillettes, languide guardie svizzere, immagini di rapporti fra pontefici e potenti equivoci.
Aaron Pegram (Francesco), Vladyslav Buyalskiy (Bernardino), Jürgen Müller (l'oste), Matthias Henneberg (Pompeo), Anton Beliaev (un ufficiale) completano il cast assicurando il buon livello complessivo della produzione.
Berlioz non susciterà le medesime passioni di Wagner nel pubblico sassone, ma Benvenuto Cellini è accolto con meritato calore, mentre un un sorriso soddisfatto ci accompagna riguadagnando l'aria aperta in un clima ancora estivo.