L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il ballo della vita e della morte

di Roberta Pedrotti

La nuova produzione di Un ballo in maschera al Verdi di Busseto vince la sfida di un ottimo doppio cast giovane e di una nuova, riuscita produzione firmata da Daniele Menghini. Qualche distinguo, invece, sulla concertazione di Fabio Biondi.

BUSSETO, 27 e 28 settembre 2024 - Dopo Macbeth, l'opera che nega l'amore, Un ballo in maschera, l'esaltazione dell'amore. Dopo la sete di potere che brucia e distrugge, un potente che deve fare i conti con altre passioni in contrasto con i suoi doveri e la sua immagine. Dopo un'inaugurazione nata per piacere e non scontentare nessuno, il coraggio senza rete di uno spettacolo tutto nuovo in un teatro minuscolo che fece storcere il naso al dedicatario (che se ne fa Busseto? Meglio sarebbe stato fare un ospedale, pensava Verdi) eppure ha poi solleticato la creatività con risultati forse irraggiungibili altrove. Zeffirelli, per esempio, avrebbe potuto far nascere in un altro luogo quella che è forse la più bella Aida? Un anni fa ci eravamo gustati un saporito Falstaff rivisitato con la regia di Manuel Renga [Busseto, Falstaff. Tutto nel mondo è burla, 22/09/2023], oggi Un ballo in maschera va in scena in forma completa in una produzione di Daniele Menghini, già assistente di Jacopo Spirei per il commovente Gustavo III realizzato postumo dal progetto di Sir Graham Vick [Parma, Un ballo in maschera (Gustavo III), 24/09/2021]. Con quel ricordo sempre vivo, ci si chiedeva se fosse già necessario un nuovo Ballo in maschera, ma la risposta affermativa è confermata dai fatti: quello era un momento irripetibile e si basava sul ripristino del libretto primigenio svedese mentre qui si usa quello americano, si mette alla prova una compagnia giovane e soprattutto rende omaggio al Maestro inglese, che non ci avrebbe voluti a struggerci nella nostalgia, bensì a prendere esempio per battere nuove strade. E infatti quel che più si apprezza di Menghini e della sua collaudata squadra è che non si tratti di epigoni, ma di interpreti che vanno via via affermando la loro identità. I loro lavori hanno già una cifra estetica ben riconoscibile, una poetica definita che pur lavorando molto sui temi del teatro e della maschera non si abbandona al cliché. Con il tempo si nota anche una maturazione nella capacità di sintesi: spettacoli precedenti, come la pur pregevole Carmen [Macerata, Carmen, 06/08/2023], rischiavano di cadere in balìa di una sfrenata proliferazione inventiva, più saggiamente centrata e dosata in questa occasione. L'assunto è chiaro e semplice: la dicotomia fra doveri e immagine pubblica da una parte, passioni private dall'altra in Riccardo si risolve nella fuga in un continuo ballo in cui la maschera (o la biacca del trucco teatrale) è quella carnascialesca portatrice di libertà e verità. Una libertà e una verità che affascina e spaventa Renato, il quale potrebbe persino nutrire sentimenti più che amichevoli verso il governatore (l'abbraccio finale in “Alla vita che t'arride” può avere varie interpretazioni) ma di certo non lo ammetterebbe nemmeno a sé stesso, inorridito e quasi ossessionato all'idea di “macchiarsi” il corpo e l'anima nella sporcizia del senso e dell'istinto. Nel duetto del secondo atto, difatti, Riccardo condivide con Amelia il trucco bianco come veicolo di liberazione dei desideri più profondi e sinceri e proprio dopo aver toccato il viso della moglie Renato può affermare “Ei m'ha la donna contaminato”.

I costumi di Nika Campisi, fra Settecento e contemporaneo, popolano uno spazio psicologico fra realtà, finzione e sovrannaturale disegnato con le luci di Gianni Bertoli nella scena di Davide Signorini in continua e chiara evoluzione simbolica (il teschio brandito da Ulrica e sbeffeggiato da Riccardo conquista progressivamente la scena dall'orrido campo fino al macabro trono dell'epilogo). L'invenzione registica non si slega mai dalla musica, come quando una sorta di drag queen felliniana distribuisce cartoni di quello che sembra il Latte+ di Arancia Meccanica, l'effetto corrisponde benissimo allo spettrale e allucinato ultimo minuetto. Tuttavia, quel che più conta è il lavoro sugli attori cantanti, che nello spazio ravvicinato del Verdi di Busseto si apprezza particolarmente nella naturale immedesimazione e nella fluidità d'azione di tutti gli interpreti.

Si alternano due cast, come abbiamo detto, molto giovani, per lo più composti da allievi ed ex allievi dell'Accademia verdiana di Parma e altre istituzioni simili, come quella del Maggio fiorentino. Anche l'artista più noto della compagnia e già ampiamente in carriera, Giovanni Sala, ha solo trentadue anni. In questa fresca panoramica abbiamo diversi tipi di approccio: c'è chi è già pronto per la sua parte, chi senz'altro lo sarà, chi si può permettere di affrontarla in questo contesto e in questo spazio, ma basa e baserà facilmente il suo repertorio su altro. Sala, mozartiano di vaglia e artista smaliziato, è probabile che dopo questa esperienza lasci Riccardo nel cassetto e non gli daremmo torto, anche se la sua qualità d'attore, la sua abilità d'interprete, la sua musicalità e la sua comunicativa gli permettono di farsi apprezzare anche in questa incursione fuori dai suoi consueti binari. Davide Tuscano, invece, mostra una pasta vocale che, coltivata con le dovute cure, potrà dargli e darci soddisfazioni proprio in questo tipo di ruoli, mostrandosi già ben immedesimato e sicuro.

Lodovico Filippo Ravizza è già noto come uno dei giovani baritoni meritevoli della maggiore attenzione. Appena ventinovenne, continuiamo a ripetere che sia cosa saggia dosare bene nel tempo l'approccio a Verdi, ma è pur vero che ogniqualvolta lo ascoltiamo in questo repertorio – sempre in situazioni adeguate, produzioni e concerti “d'Accademia” – i risultati sono pienamente convincenti: canto naturale ed espressivo, pienezza e morbidezza d'emissione, dizione chiara, persuasiva partecipazione scenica. Giusto e sano che al momento frequenti soprattutto Mozart, Donizetti e dintorni, ma intanto già questo Renato si fa applaudire senza riserve e sul suo futuro verdiano vien da scommettere subito. Non va comunque trascurato nemmeno il baritono del cast alternativo: Hae Kang usa bene la sua voce senza alcuna forzatura, vanta una pronuncia nitida e soprattutto consapevole.

Convince un po' meno l'Amelia di Caterina Marchesini, giovanissimo soprano senz'altro valido, ma che al momento immaginiamo più affine a parti liriche meno sollecitate in frasi drammatiche agli estremi della tessitura, com'è ben plausibile a soli ventisei anni. Infatti Ilaria Alida Quilico, ascoltata il giorno dopo, è più grande di soli tre anni, ma tanto basta a un approccio più maturo, benché, chiaro, passibile di crescita e consolidamento in una parte tanto imponente.

Chi invece sembra già pronta nel ruolo assegnatole come Atena nata dalla testa di Zeus è Danbi Lee nei panni di Ulrica: la tessitura è dominata con autorevolezza, la parola ben scolpita, la presenza intensa anche in pochi gesti. E se la maga è ieratica, il paggio non può che essere dinamico: Licia Piermatteo si diverte anche a inserire variazioni sovracute in “Saper vorreste” (d'altra parte, gonfia palloncini e inala elio...) e non esce un secondo dal personaggio, visto in questo caso come una segretaria tuttofare. Non è una novità, ma nemmeno un cambiamento così netto, in uno spettacolo dove tutti, tranne Renato, si travestono e proprio Amelia e Riccardo indossano, per il ballo, costumi di genere invertito.

Una lode speciale va rivolta a Samuel (Agostino Subacchi) e Tom (Lorenzo Barbieri), una volta tanto ben caratterizzati individualmente, il primo più estroverso e festaiolo, il secondo più cupo e serioso. Bene anche il Silvano di Giuseppe Todisco e Francesco Congiu come servo di Amelia e primo giudice, cui spetta la frase spesso incriminata sull'“immondo sangue de' negri”, qui rappresentata esattamente per quel che è, l'uscita squallida di un personaggio squallido che desta immediata riprovazione in tutti i presenti. Molto più efficace questa condanna di tante censure.

Se il coro è quello collaudatissimo del Regio guidato da Martino Faggiani, la buca poteva vantare un'età media anche più bassa della compagnia di canto. L'Orchestra Giovanile Italiana è un tassello importante di questa operazione, perché l'esperienza nell'opera è preziosa e non scontata nella formazione di un professore d'orchestra. Certo, la partitura è impegnativa e i ranghi ridotti imposti dalle dimensioni del teatro (cinque violini primi, cinque secondi, tre viole, tre violoncelli e due contrabbassi) rendono il tutto ancor più delicato, specie per i fiati: ogni minima sbavatura balza all'orecchio senza scampo. Un po' di tensione alla prima si percepisce, le cose vanno meglio alla seconda, né mancano occasioni per apprezzare la qualità dei ragazzi (per esempio il solo del violoncello in “Morrò, ma prima in grazia”), considerando per di più che Fabio Biondi non è esattamente un direttore associato all'idea di tradizione verdiana. Il suo intento dichiarato è una sintesi fra la pratica storica di adattare e ridurre l'organico per i piccoli teatri e la raffinatissima ricerca timbrica della partitura, cercando un passo drammaticamente incalzante. Nulla da dire sulla prima questione, che si risolve consapevolmente con ovvi e inevitabili rischi, mentre l'incedere generale manca un po' di respiro, prediligendo un'agogica ora uniforme ora inconsueta e nervosi sforzati ad abbandoni che pure Verdi suggerirebbe. Sarà senz'altro interessante riascoltarlo nella ripresa per la Rete Lirica delle Marche, in teatri di dimensioni maggiori seppur raccolte e con un organico più ampio.

Nel complesso, questo Ballo in maschera si gode, e molto, perché coraggioso, non compiacente, ma ben calcolato, con un cast che potrà dare esiti diversificati senza deludere, una regia coerente e mai banale, una concertazione che non lascia indifferenti.

La risposta del pubblico è positiva per entrambe le compagnie, a conferma che proporre è sempre più fruttuoso che cercar di compiacere.


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