L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

I tre volti di Manon

di Alberto Ponti

La Manon Lescaut pucciniana, affidata alla bacchetta di Renato Palumbo, apre l’autentica maratona con cui a Torino verranno rappresentata a stretto giro di posta anche le opere di Massenet e Auber ispirate al medesimo soggetto

TORINO, 3 ottobre 2024 - Fra i progetti messi in cantiere dai maggiori teatri d’opera italiani nella stagione 2024-25, la palma del più originale, e con ogni probabilità temerario, va al Manon, Manon, Manon del Regio di Torino: proporre in contemporanea nel giro di un mese i tre celebri lavori musicali ispirati al romanzo dell’abate Prévost. Se le trasposizioni sulla scena di Jules Massenet e Giacomo Puccini fanno infatti parte del repertorio fin dalla loro nascita, non altrettanto si può dire di quella firmata da Daniel Auber, oggetto misterioso e pochissimo rappresentato non solo in Italia.

Il compito di aprire le danze spetta alla pucciniana Manon Lescaut in un nuovo allestimento di Arnaud Bernard, destinato a comprendere anche gli altri due titoli della trilogia. Minimo comun denominatore annunciato è il cinema d’oltralpe e, nello spettacolo specifico, viene messa in primo piano la corrente nota come realismo poetico, evocata da poetiche proiezioni soprattutto quando il pallino dell’azione è condotto dalla coppia di protagonisti. Lungi dal distrarre, rischio sempre dietro l’angolo in esperimenti di tal genere, gli spezzoni filmati completano la vicenda dando vita, con un raffinato utilizzo del bianco e nero in sintonia con i colori neutri delle scene, curate da Alessandro Camera, a un dialogo contrappuntistico tra realtà e fiction che, nella sua semplicità e godibilità immediata, non ha nulla di cerebrale. I cineasti fanatici potranno forse cogliere allusioni a singole pellicole che, se ignorate, non compromettono in nessun caso la comprensione del ‘plot’. Le stesse ambientazioni degli atti (Amiens, il salotto di Geronte, il porto di Le Havre, la Louisiana) ricreano con accuratezza l’universo francese di cui registi del calibro di Renoir e Carné non possono non dirsi emanazioni, tanto più affettuose quanto più critiche nei confronti della consolidata tradizione ottocentesca. Ecco così prendere vita nell’osteria del primo atto dai manifesti ‘Dubonnet’ alle pareti una tipica atmosfera del periodo tra le due guerre, merito dei costumi di Carla Ricotti, abile pure, nel successivo madrigale in casa di Geronte, ad assecondare le intenzioni di Bernard introducendo tra gli svolazzi rococò del salone, un quartetto di scatenate e disinvolte ‘flappers’.

Più opinabile è invece l’approccio quasi grandoperistico nelle scene di massa del primo e del terzo atto dove la pletora di personaggi e comparse stipate sul palco senza un apparente ordine nei movimenti rischia di vanificare le studiate intenzioni registiche, a maggior ragione nelle parti dell’opera in cui la ricostruzione degli ambienti è affidata a una macchina teatrale di particolare dettaglio: accanto alla citata osteria, troviamo infatti la banchina di Le Havre con Manon e Des Grieux in attesa di salpare per il nuovo mondo. In apparenza assai semplici, ma non ingenue, sono la dimora parigina della protagonista e la ‘landa sterminata’ dell’epilogo, limitata a una minima piattaforma rialzata.

Il versante strettamente musicale, nell’unica serata con il secondo cast ad esprimere differenti interpreti per entrambi i ruoli principali, si caratterizza per alti e bassi all’interno di un’esecuzione di routine. La direzione di Renato Palumbo si può definire nel complesso attenta e precisa nei tempi pur difettando di un certo pathos e privilegiando l’uniformità di colore, anche potendo contare sulla preparata orchestra del Regio. Al maestro vengono bene alcuni passi, su tutti l’episodio del madrigale, concertato con uno sguardo quasi stravinskiano: il senso ironico è spiccato e ogni voce è scolpita in rilievo Per converso, in gran parte del primo atto, l’orchestra tende a imporsi a scapito dei cantanti in un tentativo di segnar la strada non sempre seguito. Lo spettacolo va tuttavia in crescendo fino a raggiungere un convincente livello di equilibrio tra fossa e palcoscenico che non esclude qualche applauso a sipario aperto.

La Manon di Maria Teresa Leva può fare affidamento su una voce educata, talvolta esile ma di ampia estensione con vivo senso del fraseggio e un’impostazione che le consente di superare le difficoltà di una scrittura variegata e oscillante tra frivolezza mondana e afflato tragico in linea con la contraddittorietà del personaggio. Il soprano calabrese, attesa al varco dal pubblico, in pagine come il grande duetto ‘Tu, tu amore? Tu?!’ o l’aria finale ‘Sola… perduta abbandonata’, si disimpegna con coraggio e solido mestiere instillando nella sua performance qualche goccia di autentica passione.

Des Grieux, impersonato dal tenore Carlo Ventre, presenta da par suo un timbro abbastanza scuro con una prestazione di una certa irruenza compensata da un’intonazione sicura e una capacità di ascendere al registro acuto senza lasciare strascichi che si coniugano con un temperamento attoriale di efficace versatilità. Un po’ in ombra nell’esordio di ‘Donna non vidi mai’, si riscatta sulla distanza con un temperamento sempre espressivo corroborato da un physique du rôle che non viene mai meno.

Nella norma i comprimari, a partire da Lescaut (il baritono Alessandro Luongo) a tratti sottotono ma capace di fiammate improvvise e convincente nell’aria ‘Sei splendida e lucente’, affiancato dal basso Carlo Lepore nei panni di Geronte di Ravoir, che accoppia mezzi vocali potenti a una buona presenza scenica. L’Edmondo di Giuseppe Infantino, tenore, sarebbe assai gradevole in sé considerato ma finisce per essere spesso sopraffatto dalla muscolosa orchestra pucciniana, cui il podio non fa sconti in quanto a volume. Danno il proprio contributo alla riuscita della rappresentazione il tenore Didier Pieri nella duplice veste di lampionaio e maestro di ballo, il mezzosoprano Reut Ventorero (un musico), il baritono Janusz Nosek (sergente degli arcieri ed oste), Lorenzo Battagion (comandante di marina) e le godibilissime ‘madrigaliste’ Pierina Trivero, Manuela Giacomini, Giulia Medicina e Daniela Valdenassi.

Last but not least, una menzione speciale deve essere attribuita al coro del Teatro Regio condotto da Ulisse Trabacchin, ancora una volta una garanzia in un’opera dove il suo ruolo è tutt’altro che secondario, nonché ai molti responsabili dietro le quinte, dalla collaboratrice registica Marina Bianchi alla coreografa Tiziana Colombo, per finire con Fiammetta Baldiserri e Marcello Alongi con il compito di sovrintendere rispettivamente a luci e video, senza i quali verrebbero a mancare parti sostanziali nell’economia dello spettacolo.

Caloroso successo tributato da una sala non piena ma attenta ed elegante.


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