Alberto Cantù, il gentiluomo della critica
di Luca Fialdini
Il critico e musicologo genovese si è spento nella “sua” Milano il 18 gennaio, dopo una lunga malattia.
Conobbi Alberto Cantù il 16 marzo 2017 a Pisa, casus belli la presentazione della sua monografia pucciniana nel foyer del Teatro Verdi. Il destino ha un suo modo di muovere le pedine e i nostri cammini si sono incrociati per meno di quattro anni; a essere onesti, è ingeneroso misurare il tratto di strada percorso con una figura della sua statura con il tempo: bisogna - seppur a malincuore - ragionare di qualità, non di quantità.
Da quel che poteva essere un incontro isolato nacque una conoscenza, che ci curammo di approfondire dopo la mia recensione sul suo libro L’universo di Puccini, da Le Villi a Turandot. Conservo ancora la lettera che Alberto mi scrisse dopo averla letta. Ci accordammo per un secondo incontro, mi invitò a un certo numero di sue presentazioni e conferenze, ad alcune riuscii a presenziare, ad altre no. Curiosamente quasi tutti questi appuntamenti erano di tematica pucciniana, tanto che per me il suo è diventato quasi sinonimo di Puccini: una limitazione non da poco per un intelletto che spaziava senza soluzione di continuità da Toscanini a Mehunin, da Respighi a Paganini, dall’Ottocento musicale genovese alla Russia fin de siècle.
Critico de Il Giornale per quasi tre decenni - dal 1976 al 2006 - e collaboratore di Amadeus, Archi Magazine e Musica, andava fiero della definizione affibbiatagli dall’amico Giovanni Carli Ballola che lo indicava «tra le persone più competenti e intellettualmente oneste che scrivono oggi di musica sulla stampa nazionale». Un’attività, quella del critico, che sapeva integrare in modo prezioso e mai pedante con quella dello storico e del divulgatore, creando una figura di raro equilibrio: esattezza e precisione quasi maniacali su ogni concetto espresso uniti a una disinvoltura piacevolmente poco formale. Incisivo, alato, onnivoro, limpido nelle spiegazioni e accattivante nell’esporle, Cantù era depositario di un garbo e di una gentilezza - nei modi e nel pensiero - che difficilmente si possono rintracciare in altri. Se dovessi riassumere la sua persona (per quanto limitata fosse la nostra reciproca conoscenza) e la sua penna, direi che Alberto era leggerezza, era la capacità di vedere con mente critica oltre un mondo che spesso ci appare pesante, opaco e inerte, sganciato da opinioni preconcette ed eternamente curioso.
Una prova tangibile della sua curiosità è la bibliografia che ci ha lasciato, in cui convivono il melodramma e la musica strumentale, il XVIII secolo e il «Secolo breve», con una particolare attenzione a ciò che avveniva tra Otto e Novecento e - soprattutto - alla sua grande passione: il violino e i violinisti. Alcune delle ultime pubblicazioni erano orientate proprio in tal senso, come le tre grandi biografie pubblicate da Zecchini (dedicate a Yehudi Menuhin, Jascha Heifetz e David Oistrakh). Inoltre, da buon genovese, aveva particolare interesse per la figura di Niccolò Paganini; in questo senso è impossibile non citare l’edizione critica pubblicata dalla Henle di due lavori del concittadino, ossia le 60 Variazioni sul Barucabà per violino e chitarra e soprattutto dei 24 Capricci. Quest’ultima, peraltro, è obbligatoria al Concorso internazionale di violino Premio Paganini di Genova.
La scomparsa di Alberto reca con sé un vuoto significativo, in cui ci troviamo più poveri non solo di uno straordinario conoscitore della cultura musicale, ma anche di un intellettuale dal pensiero raffinato, capace di aprirti una nuova prospettiva con sole due parole. La scomparsa di Alberto ci priva di una persona di rara signorilità, di un uomo che esce dal mondo della musica così come ne era entrato: con discrezione e cortesia. Per parte mia, lo ringrazio una volta ancora per avermi mostrato una via diversa rispetto a quella che ero solito battere, per le numerose lezioni che mi ha impartito spesso inconsapevolmente e mai ex cathedra. Buon viaggio, caro Alberto.