Intorno a Rossini, cercando Rossini
di Roberta Pedrotti
2016, duecento anni dalla prima del Barbiere di Siviglia, 2018, centocinquanta dalla morte di Rossini. Fra queste due ricorrenze, un convegno della Fondazione Rossini di Pesaro si propone di fare il punto sulle tendenze odierne della ricerca musicologica intorno al Pesarese.
PESARO 9, 10, 11 giugno 2017 - Quando i lavori si aprono con il ricordo e la dedica ad Alberto Zedda nessuno poteva immaginare che di lì a pochi giorni sarebbe scomparso un altro Nume tutelare della Rossini Renaissance, Philip Gossett. Ci si sente un po' orfani, al pensiero, gravati della responsabilità di un lascito tanto importante. Conforta, però, vedere che oggi si affacciano volti nuovi e ben preparati, che altri nomi si consolidano e che i giovani pupilli di qualche lustro fa continuano a lavorare con inesausta curiosità. Perché la ricerca, e nello specifico la ricerca su Rossini, vive e continua a vivere rinnovandosi senza sosta, non si appaga di un risultato, non si esaurisce nella trascrizione di un manoscritto ritrovato, ma cresce senza sosta, ampliando i suoi interessi e rimettendosi in discussione. Proseguire su questa strada è il miglior modo di onorare chi ha creato la gloria della Fondazione Rossini e del Rof, saperla comunicare al pubblico, tenerla viva nel rapporto con il teatro e la sala da concerto è la sfida che deve unire biblioteche, archivi e cartelloni, convegni specialistici e incontri divulgativi, studio e media.
Di fronte a eventi come questo, articolato in cinque sessioni (Filologia e testo musicale, Transnazionalità, Pratiche esecutive, Musica e dramma, Ricezione ) cui si aggiunge un concerto aperto a tutti (leggi), con l'affabile incontro e lo scambio di opinioni nelle sale e nei cortili di Palazzo Toschi Mosca aiutano a guardare avanti e offrono lo stimolo di nuove prospettive, sia negli ambiti di studio già percorsi, sia per strade meno battute, consapevoli che riflessione e ricerca non sono assoluti, ma si evolvono e si sviluppano nel tempo con gli uomini e le donne che seguitano a ragionare e interpretare.
FILOLOGIA e TESTO MUSICALE
Sbaglierebbe chi perseverasse nel ritenere la filologia una scienza esatta, volta a fissare dei risultati precisi e assoluti. La filologia è materia viva, materia di dibattito, soggetta agli stimoli di nuove scoperte, nuove interpretazioni, nuove chiavi di lettura nel testo e nel contesto, strettamente interdipendenti l’uno dall’altro. D’altra parte la filologia, etimologicamente non è che l’amore, l’affinità, il desiderio verso il logos, che è parola ma anche pensiero, ragionamento, argomento, tradizione e ricerca, dalla medesima radice di lego, che vale per “dire” quanto per “raccogliere”, “mettere insieme”, quindi ragionare, ricercare, collegare. È, dunque, fondamentale ribadire come lo scopo del filologo non sia fornire all’interprete una partitura “corretta”, dirgli che nel tal punto c’è una legatura, nel tal altro una croma puntata o una semicroma: è tutto il percorso di ricerca intorno all’opera ad essere importante per una comprensione crititica e Daniele Daolmi lo ha dimostrato illustrando il caso dell’edizione della Petite messe solennelle da lui curata. Un lavoro che costringe a ripensare alcuni luoghi comuni dati per assodati di fronte alla mirabile bellezza della versione per due pianoforti e harmonium come all’effetto un po’ posticcio e ipertrofico che può emergere da certe esecuzioni della versione orchestrale. Ecco invece che, dallo studio delle fonti si apprende che l’organico delle prime esecuzioni non era poi così rivoluzionario nel contesto privato in cui la Petite messe nacque, ma che, nel lavorìo continuo di una partitura che è un autentico work in progress, preludeva senz’altro, fin dalla prima stesura, a uno sviluppo strumentale che non è, però, quello magniloquente delle grandi sale da concerto, ma quello di un’orchestra comunque a ranghi ridotti in cui il ruolo concertante dell’organo potesse avere un senso come la partecipazione dei soli a tutti i numeri corali (aspetti entrambi che perdono ogni effetto con masse di maggior spessore). Ecco allora che tutto il lavoro del filologo si connette indissolubilmente con la dialettica critica sull’opera e con la riflessione dell’interprete, cui può fornire spunti e consapevolezze ben maggiori della passiva constatazione del ripristino di un segno dinamico.
Sulla stessa lunghezza d’onda, Daniele Carnini racconta l’appassionante analisi dell’unico pezzo autografo pervenutoci di Demetrio e Polibio, il quartetto “Donami omai Siveno”. La struttura del fascicolo, i tipi di carta, le pagine autografe e quelle vergate da altra mano conducono ancora una volta a riflessioni più ampie sulla maturazione dello stile rossiniano e in generale dello stile dell’opera italiana, che si trovava in un “crocevia di cambiamenti” parallelo allo scontro fra i due secoli “l’un contro l’altro armato” al culmine dell’avventura napoleonica. Una serie di successivi interventi sulla struttura del numero, testimoniati dallo stato composito della fonte, ci parlano dunque di ritocchi e rielaborazioni che mettono in discussione le certezzee dell'analisi stilistica per l'attribuzione di un testo e sfumano i contorni delle fasi di maturazione dei linguaggi rossiniani.
Chiude questa prima sessione Marco Beghelli e spinge a riflettere sull’idea stessa di autoimprestito, di plagio, allusione e influenza, non solo in Rossini, non solo in musica. Una carrellata ragionata di esempi aiuta a considerare la diffusione, conscia o inconscia, di queste pratiche e quindi il ruolo che la percezione soggettiva può avere nel recepirle e catalogarle (vi sono esempi di passi e versi indicati come già noti e che invece non risultano avere identità con alcuna creazione precedente, ma solo comuni tratti stilistici). Cambia allora anche il concetto di “centone” che, per esempio, ha visto relegare titoli come Eduardo e Cristina, Robert Bruce e Ivanohé ai margini degli interessi rossiniani: eppure soprattutto il primo, il più bistrattato, non avrebbe minor vanto di “originalità” di una Gazzetta e, come è stato giustamente sottolineato in fase di dibattito, l’attrattiva di un’opera non si dovrebbe misurare in base all’unicità della sua musica, ma al modo in cui essa partecipa alla drammaturgia. Al di là dei singoli gesti musicali, caratteristici di un autore e di un codice stilistico condiviso, ma tali e tanti e sì minuti da non poter appagare ambizioni di catalogazione, anche nel caso di temi o di numeri interi spesso lo studio delle fonti conferma come non si tratti di un semplice trapianto di pagine attribuibile a questioni di tempo, ma di una riscrittura ex novo in cui un modello si ripresenta alla memoria, si rinnova, assume nuovi valori semantici in nuovi contesti. Talvolta, perfino, è l'ascolto a rivelare una prossimità che sulla carta è quasi possibile discernere. Per questo la riflessione sull'autoimprestito non può dirsi chiusa, né tantomeno può limitarsi ad argomentazioni pratiche e a giochi di elencazione che rischiano di rimanere fini a se stessi. Il dibattito folologico resta a perto, la ricerca, si vede, non può esaurirsi nell'esplorazione di testi, contesti, extratesti.
TRANSNAZIONALITA’
La diffusione della musica rossiniana nel mondo assume spesso un valore politico, anche insospettato. È, per esempio, il caso dell'oggetto della relazione di José Manuel Izquierdo, la fortuna goduta dal Pesarese nell’America latina al tempo della rivendicazione d’indipendenza dai governi iberici, quando la novità costituita dalla sua opera fa il paio con la novità e il progresso politico, diviene una sorta di vessillo cui si ispirano i compositori locali (gli inni nazionali di tanti paesi sudamericani ce lo ricordano a ogni olimpiade o mondiale di calcio). Purtroppo le risorse per il teatro lirico scarseggiano, ma l’ingegno si aguzza ancor più con una fitta produzione di partiture più agili, siano esse trascrizioni, libere interpretazioni o nuovi lavori à la manière de. Ancor più complesso e affascinante è il rapporto fra Rossini e i paesi tedeschi e austroungarici, dove l’attenzione critica, nel bene e nel male, fu assai vivace , come ha dimostrato l’articolata analisi di Arnold Jacobshagen, che ha gettato nuova luce anche sul dibattito e la ricezione della contrapposizione fra Rossini e Beethoven, non certo univoco. La polarità Pesaro-Bonn torna anche quando si analizza il vivace contesto culturale di un impero cosmopolita e culturalmente vivace come quello austroungarico: Axel Körner si è soffermato sulla politica (meritevole di rivalutazione) dell’età di Metternich, sulla diffusione della musica rossiniana in terra boema e proprio sul dibattito estetico sui due compositori.
Sempre in ambito asburgico, lo studio di Claudio Vellutini, sulla traduzione di opere rossiniane sovente tramutate in Singspiel mette in luce una precisa valenza politica nel confronto fra cantanti italiani (in età napoleonica banditi dai teatri viennesi) e locali: eseguire le amatissime opere rossiniane in lingua tedesca significava affidarle ad artisti autoctoni e affermare il loro valore anche in confronto ai richiestissimi, prestigiosissimi colleghi italiani. Un'affermazione di orgoglio e identità nazionale, quindi, che s'inserisce sia nel quadro della diffusione capillare, davvero transnazionale, della produzione del Pesarese in Europa sia nel dibattito estetico sugli stili e le scuole di canto, tema che tornerà poi nelle relazioni di Poriss, Mungen e Vernazza.
PRATICHE ESECUTIVE
Soffermarsi sulle figure di Pauline Viardot (Hilary Poriss) e di Wilhelmine Schroeder-Devrient (Anno Mungen) non significa solo restituire i ritratti di due fra le voci più significative del XIX secolo, l’una sorella di Maria Malibran e di Manuel Garcia jr, l’altra celeberrima Desdemona rossiniana, cantante belliniana per eccellenza nei paesi tedeschi ma anche creatrice di personaggi wagneriani come Adriano, Senta, Venus. Significa anche gettare uno sguardo realistico e non superficiale sulla produzione, interpretazione e ricezione dell’opera dell’Europa del XIX secolo, ampliando riflessioni su temi ricorrenti approfonditi anche in altre relazioni (Vellutini e Vernazza).
Altri aspetti emergono nello studio di Emanuele Senici sulla diffusione di “Di tanti palpiti” alla stregua di canto popolare testimoniato anche dai coniugi Shelley in Toscana. Un esempio notevole di allusione testuale viene “Rosina amabile”, da Egeria: raccolta di poesie italiane popolari intrapresa da Wilhelm Müller (il poeta della Schone müllerin), in cui la uartina“Mi rivedrai/ ti rivedrò./ Ne’ tuoi bei rai/ mi pacerò” si ripete e si trasforma in continuazione con l’evolversi della vicenda (fino a “Tu ballerai/ io ballerò./ A’ nostri guai/ fine darò”).
Dal canto suo, Carlida Steffan ha rivolto l'attenzione al mondo dei salotti, alla costruzione dei programmi di concerti privati e alla diffusione di alcuni pezzi vocali da camera, distinguendo fra le arie favorite dai divi professionisti ospiti dell’alta società e i pezzi d’assieme in cui più pare amassero cimentarsi altolocati dilettanti.
MUSICA e DRAMMA
Fabrizio Della Seta, musicologo consacrato soprattutto a Bellini e Verdi e occasionalmente prestato a Rossini (sua l'edizione critica di Adina), propone con la sua ampia relazione di rivolgere l’attenzione ai legami familiari nella drammaturgia delle opere rossiniane. In particolare si concentra sugli aspetti legali, in termini di norme ereditarie e di emancipazione dall’autorità genitoriale, che nel primo Ottocento si riverberano nel classico intreccio in cui il padre impone alla figlia un matrimonio diverso da quello desiderato (Argirio che promette Amenaide a Orbazzano, Contareno Bianca a Capellio, Douglas Elena a Rodrigo e via di questo passo). D’altro canto i cambiamenti della società sono testimoniati anche da una non esigua letteratura relativa alle manifestazioni d’affetto ritenute o meno consone fra padri e figli: anche questo un aspetto che si riconosce in molti atteggiamenti dei personaggi rossiniani e che può aprire riflessioni anche su titoli in cui non si riconosce il modello sviscerato da Della Seta ma in cui le dinamiche familiari assumono importanza familiare (da Demetrio e Polibio a Guillaume Tell, passando sicuramente per la paternità di Ciro ed Eduardo, per i dilemmi di Adelberto e di Zoraide).
Una visione più sfaccettata e meno cristallizzata del dramma rossiniano, più ancorata anche alla contingenza storica può ispirare sicuramente nuove prospettive interpretative, anche quando la contingenza, più che politica legislativa e sociale, è quella del dibattito estetico, dunque, come traspare anche nella relazione di Matteo Giuggioli sulle tempeste rossiniane, tema che solleva opportune riflessioni sulla rappresentazione della natura, sulla retorica della metafora atmosferica e della sua rappresentazione in musica, quindi sull’espressione ideale o imitativa della musica nel dibattito non solo coevo a Rossini.
Avrebbe dovuto intervenire in questa sessione anche il prof. Damien Colas sul "Problema della romance nelle opere di Rossini", ma gravi problemi familiari glielo hanno impedito.
RICEZIONE
Ancora reazioni al fenomeno rossiniano: Mary Ann Smart ha raccontato il fenomeno internazionale del successo dello Stabat Mater, di cui proliferarono edizioni a stampa più o meno autorizzate, parodie, rielaborazioni a uso liturgico per esempio secondo il rito anglicano, nonché dibattiti e interrogativi critici sullo stile della partitura e sul suo ruolo nel tempo del silenzio teatrale di Rossini. Rossini che rimaneva un punto di riferimento ineludibile, come ha sottolineato Ruben Vernazza analizzando la trentennale attività critica di Étienne-Jean Delécluze al Théâtre Italien di Parigi, considerato una vera e propria scuola di canto in cui anche gli stessi artisti francesi avrebbero dovuto recarsi ad apprendere dai loro colleghi italiani. Infatti era in corso un acceso dibattito sull’insegnamento pubblico del canto in Francia e i Conservatori statali erano accusati di formare artisti dalle voci malferme e tendenti all’urlo: il canto rossiniano, con la sua eleganza, le sue sfumature, la sua quadratura musicale anche nella chiusura delle singole frasi rappresentava un modello ideale che Delécluze (disinteressato alla drammaturgia e alla teatralità, così come alle pagine corali e d’assieme in modo quasi provocatorio) oppone anche al “degrado” rappresentato perfino da Bellini (“Il rival salvar tu dei… Suoni la tromba” è definito “monstrueux duo”). Frattanto in Italia, mentre l’opera buffa sembra spegnersi fra occasionali sussulti per lo più in seconda linea, l’eco rossiniana si riaccende nella temperie scapigliata, che esalta l’umorismo con posizioni che anticipano Pirandello e prendono a esempio la follia completa e organizzata del comico rossiniano, la sua capacità di esprimere con sguardo arguto e surreale un’ironia affatto moderna, un “disincanto scettico e amarognolo”. Emilio Sala traccia un bel quadro di questo vivacissimo milieu culturale, in cui si colloca il curioso (quanto sfortunato) esperimento di Costantino Dall’Argine, che ebbe la bizzarra idea di rimettere in musica il libretto di Sterbini – come si usava ai suoi tempi, diviso in tre atti con tagli e arbitrii – del Barbiere di Siviglia. Licenzia un’opera ambiziosa in cui occhieggiano temi popolari da rivista (“Largo al factotum” è una polka da café chantant delle più commerciali, e l’effetto è straniante) o fugati ironicamente accademici (“Mi par d’esser con la testa”). Non ne sortisce un capolavoro, ma una partitura stravagante ed eclettica, testimone del singolare rapporto fra Rossini e gli scapigliati anche nelle reazioni non proprio benevole che suscitò nella stessa cerchia intellettuale, tanto più che l’atteso, prestigioso, approdo al Teatro Comunale di Bologna cadde proprio due giorni prima della morte del Pesarese, suscitando, nel migliore dei casi, macabri sarcasmi.
Del Rossini ormai mitizzato a icona già in vita e poi in morte ha disquisito anche Céline Frigau Manning, raccontando come la frenologia francese si sia interessata alla fisionomia dell’autore del Guillaume Tell analizzandone i tratti con cura maniacale fino a dedurne – anche a posteriori, a corroborare tesi preformulate – tratti di genialità musicale e teatrale non esenti da luoghi comuni aneddotici sul temperamento attribuito agli italiani in generale e a Rossini in particolare. Rossini che, abbiamo visto, resta una fonte inesauribile di riflessioni, studi, approfondimenti dietro quell'immagine sorniona e sorridente che l'iconografia ci ha restituito.