Gloire immortelle
di Stefano Ceccarelli
Grandi applausi per un'eccellente versione del Benvenuto Cellini di Hector Berlioz al Teatro dell’Opera di Roma; spettacolo che, in co-produzione con la English National Opera e De Nationale Opera & Ballet di Amsterdam, ha ben meritato di girare l’Europa. Una regia utopicamente visionaria quella di Terry Gilliam, famoso regista cinematografico, che dimostra grande sensibilità anche per il teatro d’opera. La direzione di Roberto Abbado, poi, impreziosisce e vitalizza l’incredibile partitura di Berlioz, ricca di perle e diamanti melodici d’inestimabile valore – un peccato venga così poco eseguita: l’unico precedente all’Opera di Roma, infatti, risaliva alla stagione 1995/6, più di un ventennio fa. Successo di pubblico, grandi applausi, un cast eccellente (in cui primeggiano Osborn e la Sicilia): c’è tutto per considerare imperdibili e storiche queste serate all’insegna del Cellini.
ROMA, 29 marzo 2016 – Raramente si esce pienamente soddisfatti da un’opera a teatro come dopo aver assistito a questa superba versione del Benvenuto Cellini di Hector Berlioz; e non parlo solo del tripudio melodico e inventivo del compositore francese – ché questa è cosa nota –, ma anche della mise en scène, ricca all’inverosimile: non si sa quasi dove guardare, ché succede qualcosa dovunque sul palco. Il Teatro dell’Opera di Roma ha fatto benissimo a co-produrre questo spettacolo con la English National Opera e De Nationale Opera & Ballet di Amsterdam: è giusto e doveroso che la mise en scène del celebre regista cinematografico Terry Gilliam venga ammirata da più persone possibili, giacché lo merita. Io lo ricordo, in qualità di regista cinematografico, per L’esercito delle dodici scimmie. È curioso come spesso si pensi che chi sia regista cinematografico non possa essere anche regista teatrale di talento e buon occhio. Come il platonico Socrate del Simposio dimostrò che si può essere al contempo autori e di tragedie e di commedie, così Gilliam ci ricorda che si può essere ottimi registi sia nel cinema che nel teatro (e senza scomodare l’aureo Visconti o, perché no, Zeffirelli). Ma cosa rende speciale lo spettacolo di Gilliam? Innanzitutto il movimento, la verve, la zampillante immaginazione che anima la regia. Sarebbe difficile sintetizzare o tentare di raccontare uno spettacolo effervescente dall’inizio alla fine; alcuni assi portanti sono: una fonte inesauribile di trovate immaginifiche; una sintesi efficace di stili, anche molto distanti fra loro; una cura meticolosa e accurata nella tornitura di tutti i personaggi, riuscita pienamente e teatralmente efficace. Basti su tutte citare la scena del carnevale romano (finale I), variopinta di tocchi veneti, con addirittura un Cassandro androgino e en travesti in latex – fa molto atmosfera dark, atmosfera che ritroviamo nei costumi e nell’abitazione di Teresa e Balducci. Un gorgoglio di persone, proiezioni, effetti speciali. Si sprecano i coup de théâtre, offerti principalmente da talentuosi saltimbanchi e mimi –come, per esempio, lo stesso Cassandro che volteggia appeso a una fune al centro del palco. Certo, della Roma rinascimentale non rimane che la caotica percezione della vita e dell’eros: ma tant’è, amiamo d’istinto la resa di Gilliam. Non ci si annoia mai, né visivamente, né teatralmente. Le scene (di Gilliam stesso e Aaron Marsden, da un’idea di Rae Smith) sono curatissime, per lo più basate – soprattutto gli esterni – su una reinterpretazione grafica delle celebri incisioni piranesiane delle Carceri d’invenzione (e Piranesi è certo incisore fermamente legato all’immagine romana del Settecento); l’interno dello studio di Cellini (II atto) è quasi una caverna delle meraviglie, con opere sbozzate e varie riproduzioni di disegni e parti del Perseo con la testa di Medusa fiorentino, compresa un’enorme testa dorata. Gilliam le usa proprio tutte per stupire il pubblico, non dimenticandosi certo di sfondare la quarta parete: eccoci immersi, fin dall’ouverture nel carnevale romano con saltimbanchi e mimi direttamente in platea, con tanto di coriandoli dal soffitto. Del suo senso spettacolare – oserei dire quasi hollywoodiano – del teatro d’opera ce ne dà compiuta espressione nel finale II: complesse movenze sceniche (addirittura un’enorme recipiente per il metallo) portano all’apparizione dietro a una tenda alta tutto il palco delle gambe del Perseo – nelle intenzioni della storia doveva essere una statua mastodontica, addirittura fusa nel Colosseo. L’opera termina nella contentezza generale, cui Gilliam non manca di aggiungere coriandoli dorati sugli assisi in platea – ne sono uscito totalmente ricoperto.
Della patente volontà sincretica di gusto e tematiche (anche antitetiche) è eloquente testimonianza il costume di papa Clemente VII, che diventa una sorta di imperatore cinese, un Altoum insomma, ma nell’opera sbagliata (con tanto di codino, lunghe unghie e tutti gli apparati del caso): e da tale entra nello studio di Cellini, accompagnato però da centurioni romani. (Il senso dell’assolutismo del potere pontificio è reso con quest’ardita metafora scenica di raffinata ideazione e esilarante comicità). Dunque, tirando le somme: una utopia/distopia immaginifica condita di molte nuance (Roma, Venezia, le incisioni di Piranesi ecc.), dove si muovono personaggi ai limiti del nonsense: un minestrone che potrebbe facilmente risultare indigesto nelle mani di un regista sprovveduto, ma non certo nelle mani di Gilliam, che rende tutto un capolavoro frizzante, irriverente, giocoso, ricco di riflessioni. Ed è solo la sua seconda regia d’opera – la prima è stata sempre un’opera di Berlioz, autore che sente come sua fonte d’ispirazione, La damnation de Faust: chissà come andrà avanti – perché tutti speriamo ciò accada!
A dirigere un grande allestimento non poteva che ergersi sul podio un grande direttore: Roberto Abbado, garanzia di intelligenza musicale, bacchetta eccellente. Abbado risalta l’allure brillante della partitura, la sottile, intricata trama sonora che Berlioz e pochi altri hanno saputo creare, un autentico sbalzo aureo in musica. Questa perfezione estetico-timbrica è coniugata a un perfetto controllo e senso agogico della partitura: Abbado non annoia mai, sa condurre perfettamente coro e voci, sa valorizzare affreschi spesso di difficile lettura. L’orchestra dell’Opera di Roma lo segue generando un suono chiaro e vivace, che alle volte tende però leggermente a coprire le voci, ma rimanendo brillante e francesemente spumeggiante.
Magnifica la prova di John Osborn nel ruolo del titolo, non certo agevole, scritto per le corde del leggendario Duprez: con la sua voce scura, squillante, dotata di un vibrato stretto e sensualissimo, regala un Cellini virile e carnale (certamente più del pur perfetto, e paradigmatico nel ruolo, Nicolai Gedda), cogliendo del personaggio ogni sfumatura, anche la più recondita. Il perfetto controllo del mezzo nei vari registri (con acuti perfettamente udibili, anche se misti di falsetto), il pertinente e pittorico fraseggio, concorrono assieme a regalarci un indimenticabile Cellini. L’amore passionale per Teresa è espresso con accenti sensuali nel terzetto del I atto fra Cellini e Teresa – in realtà un duetto, condito di comici pertichini di Fieramosca – e con maggior delicatezza nel loro duetto del II («Ah! Le ciel, cher époux»), la stessa delicatezza che Osborn spande nel cantare la romanza «La gloire était ma seule idole»; come dimenticare poi il senso d’evasione della seconda aria «Sur le monts les plus sauvages»?
In forma smagliante anche Mariangela Sicilia nel ruolo di Teresa. Con quella voce ammaliante, lirica, puramente cristallina, conquista il pubblico: controlla fiati, frasi ed è sempre colorata in ogni registro: la sua cavatina «Entre l’amour et le devoir» è tra i migliori momenti della serata, con una cabaletta che è un vero gioiello di frizzante freschezza. La sua ottima recitazione assesta la performance quasi al livello di un modello.
Del pari calzante è l’interpretazione del personaggio di Ascanio da parte di Varduhi Abrahamyan, un mezzosoprano dal timbro sufficientemente vellutato per una parte spumeggiante en travesti e dal saldo controllo vocale per eseguire con uniformità d’emissione le volatine, gli scherzi e le fioriture che la parte richiede: le sue due arie, soprattutto la seconda che ha carattere di stornello «Tra, la, la, la, la…Mais qu’ai-je donc» (II), sono deliziose.
Alessandro Luongo è un Fieramosca direi perfettamente compiuto sul piano della recitazione e alquanto convincente vocalmente: il fraseggio è spiritoso e comique, la voce negli anni migliora in chiarezza d’emissione e potenza, mostrando un netto imbrunimento che non guasta al ruolo: molto gradita la sua aria da miles gloriosus «Ah! Qui pourrait me résister?» (I). Nicola Ulivieri è Giacomo Balducci: un personaggio molto caricaturale – anche sinistramente, mi vien da pensare, per talune frecciate antisemite a lui rivolte – che Ulivieri ben rende in recitazione e vocalmente, grazie a una voce duttile sul piano dell’emissione e calzante anche per chiarezza timbrica coniugata a una decorosa scurezza. Marco Spotti è un buon Clemente VII, forse diafano vocalmente in alcuni passaggi, ma gradevole all’ascolto; possiede un timbro caldo e asciutto, forse troppo terso per una parte come quella che Berlioz e i suoi librettisti de Wailly e Barbier costruirono per Giuliano de’ Medici (che, in fin dei conti, era ricordato più per la sua imbelle mitezza e composta bellezza). Buoni anche i comprimari: Matteo Falcier (Francesco), Graziano Dallavalle (Bernardino), Andrea Giovannini (Pompeo) e Vladimir Reutov (Taverniere). Lode anche all’impegno del coro, che sa darci una performance ottima.
Un allestimento da vedere e rivedere, giacché non ci si annoierebbe mai. A scanso anche di molte complessità che la partitura presenta – ben messe in luce da ottimi contributi critici nel programma di sala – come i problemi sul piano filologico (ben tre diverse versioni, che avrebbero ben diritto a essere rappresentate) e genetico, dato che si tratta di un’opera dalla polimorfa natura di opéra-comique e grand-opéra, che ne rendono certo ostica una messinscena, la versione di Gilliam-Abbado è di tale vivace bellezza e immediatezza da emozionare grandemente, tanto che gli applausi finali sono sgorgati da un folto pubblico sinceramente ammirato.
Foto Yasuko Kageyama (Roma) e Richard Hubert Smith (Londra)