Le perle di Leïla
di Andrea R. G. Pedrotti
Appaga più musicalmente che teatralmente la produzione di Les pêcheurs de perles al Teatro Verdi di Trieste: con l'efficace concertazione di Oleg Caetani, gli ottimi complessi della Fondazione e il buon Zurga di Domenico Balzani, spicca il debutto di Mihaela Marcu quale Leïla.
TRIESTE, 10 marzo 2017 - Nella cornice della primaverile serata del 10 marzo, al Teatro Verdi di Trieste, è andata in scena la prima di Les pêcheurs de perles, con la notissima messa in scena firmata da Fabio Sparvoli, ripresa nell'occasione da Carlo Antonio De Lucia. In tutta sincerità più che di una ripresa della produzione originale, è parsa un'edizione in forma concertante, con l'inserimento di qualche coreografia fuori stile e un sostanziale immobilismo degli interpreti, i quali hanno mostrato le loro capacità attoriali in maniera autonoma e senza che vi fosse alcuna interazione fra i vari personaggi. Il primo atto è difficilmente collocabile, poiché la scenografia di Giorgio Ricchelli prevede un fondale completamente spoglio, alcune dune di sabbia o ghiaia, mentre gli abitanti dell'isola di Ceylon indossavano dei costumi - firmati da Alessandra Torella - dalla foggia solo vagamente indiana. Non molto meglio il secondo atto, con, unico elemento scenico, le rovine della testa di una gigantesca statua sulla sinistra, mentre il terzo ha principio fra i ruderi di un tempio dalle caratteristiche indefinite (potremmo essere a Ceylon, come fra gli Atzechi). L'ultima scena vede solo un gigantesco albero tipico delle foreste tropicali al quale viene poggiato Nadir, in attesa del sacrificio che non avverrà.
Le coreografie (di cui non è stato indicato l'autore) sarebbero l'unico elemento di dinamicità scenica, presenti nel primo atto, al momento della cattura di Nadir, che viene avvolto in un velo azzurro in richiamo del fiume sacro, e nel finale dell'opera. Proprio qui non è ben chiaro perché degli indiani debbano prodigarsi in un ballo del tutto simile a un'Haka. Questa è una danza tipica dei Māori, ne potremmo trovare di simili nell'Africa nera o presso alcune popolazioni precolombiane. È piuttosto improbabile che questa venga ballata da degli Indù, oltre all'errore di farla eseguire a uomini e donne, azione in pieno contrasto con la ritualità del sacrificio di matrice indoeuropea.
La debolissima drammaturgia dell'opera di Bizet si presta a molte interpretazioni registiche, stante l'indicazione del libretto che vede l'azione svolgersi in un'epoca indeterminata. Nel recente DVD del Metropolitan avevamo, infatti, lodato l'idea di rendere l'ambientazione contemporanea, poiché i costumi e i rapporti fra le caste dell'India sono immutati da secoli [leggi la recensione]. Di questo senso di sacro e di solenne la regia vista al Verdi di Trieste non ha restituito nulla.
Se deludente è risultato l'aspetto visivo, lo stesso non si può dire per la resa musicale. Unico interprete a non dimostrarsi all'altezza del cimento è stato Jésus Léon, il quale ha affrontato il ruolo di Nadir esattamente nello stesso modo in cui lo abbiamo ascoltato come Elvino lo scorso anno al Filarmonico di Verona [leggi la recensione]. La voce è piccolissima, ma gestita discretamente, tuttavia il tenore non ha messo in luce alcuna variazione di colore e ha insistito su un costante mezzoforte. La romanza del primo atto “Je crois entendre encore” viene eseguita mantenendo il canto correttamente morbido, ma senza calcuna mezzavoce o sfumatura. I fiati sono corti, ma la musicalità sufficiente. Dal punto di vista attoriale risulta quasi inesistente, disinteressato all'azione e dall'aria quasi annoiata quando dovrebbe essere portato al sacrificio. Il medesimo atteggiamento della Sonnambula (specialmente per quanto riguarda la recita del martedì) dello scorso anno. Ciò che conta più d'ogni cosa in teatro è trasmettere emozioni: questo non è accaduto, perciò la sua prova non può definirsi soddisfacente.
Passando alle note liete, si è fatto molto apprezzare il baritono Domenico Balzani come Zurga, che affronta con bel piglio la parte palesando una buona capacità di fraseggio. Si disimpegna bene in scena (per quanto lo consentisse la regia) con un'esecuzione convincente soprattutto del finale del secondo atto e dell'aria del terzo “O Nadir, tendre ami de mon jeune âge”. Bravo anche nel finale dell'opera, quando riesce a trasmettere il giusto pathos, compensando le mancanze della messa in scena.
La migliore in assoluto risulta Mihaela Marcu, debuttante nel ruolo di Leila. Non è la prima volta che il soprano rumeno si dimostra artista di classe superiore, ma questo non è dovuto a mancanze dei colleghi, bensì a una caratura tecnica e interpretativa che fanno della Marcu uno dei soprani più completi del panorama attuale. Anche in questa produzione, e nonostante essa, le sue qualità mostrano come ella sia ad oggi una cantante dalle capacità attoriali sopraffine, anche senza considerare un carisma scenico che le consente di attirare l'attenzione dello spettatore fin dal suo primo incedere sul palco del Verdi. Artista completa, è capace di gestire il timbro rotondo e una voce dal colore inconfondibile grazie a un'emissione morbida, a una tecnica raffinata e a una gestione dei fiati sempre più convincente, a riprova del grande studio prima di ogni produzione. Memorabili alcuni filati, ma risulta indimenticabile il fraseggio (perfetto nella dizione francese) nel duetto con Nadir, con un'accentazione intensamente melanconica dei versi “Ainsi que toi je me souviens! / Au sein de la nuit parfumée, / Mon âme alors libre et charmée, / À l’amour n’était pas fermée! / Ainsi que toi je me souviens!”
Bene anche Gianluca Breda, che interpreta un Nourabad di personalità.
La concertazione di Oleg Caetani risulta precisa e corretta: il direttore è abile soprattutto nel conferire intensità nelle scelte agogiche, specialmente nelle scene d'assieme. Le dinamiche sono affrontate con una linea musicale che vira più sull'intensità anziché sulla sacralità. La scelta ci pare corretta, anche perché, in questo modo, egli rende meno palesi le numerose mende registiche, risultando coinvolgente nei finali d'atto.
Ottima, come sempre, l'orchestra del Teatro Verdi di Trieste che, insieme al coro preparato da Francesca Tosi, conferma come le maestranze locali possano definirsi fra le migliori del panorama musicale italiano. Negli ultimi anni, abbiamo ascoltato di rado sul territorio nazionale una qualità tecnica di livello paragonabile a quello dell'organico stabile in forze al teatro della città che fu il più importante porto dell'ex Austro-Ungheria.
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