L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il velo squarciato

 di Luigi Raso

 

Alla bacchetta di Juraj Valčuha e alla regia di Martin Kušej si deve un'edizione memorabile del capolavoro di Šostakovič, che sonda nel profondo l'essenza stessa del teatro.

NAPOLI, 18 aprile 2018 - “Partitura mostruosa in cui la musica gracchia, ulula, ansima, soffoca (…) schegge di caos musicale si trasformano in cacofonia”. In sintesi, opera formalista. “In arte il formalismo è l'espressione dell'ideologia borghese ostile al popolo sovietico. Il partito non ha mai cessato di vigilare e combatte ogni manifestazione per quanto piccola di formalismo. Contro coloro che fossero accusati di essere formalisti, l'autorità poteva far ricorso ad ogni sorta di punizione, compresa l'eliminazione fisica”. È  un vero e proprio fulmine quello che si abbatte su Dmitri Šostakovič il 28 gennaio del 1936: sulla Pravda appare un articolo - Caos anziché musica - non firmato, ma sicuramente “suggerito” da Stalin stesso, che stigmatizza senza appello Lady Macbeth del Distretto di Mtsensk.

Una condanna dell’opera che è una ammonizione al compositore al quale la vita fu sconvolta, almeno fino alla morte di Stalin (1953): dopo gli attacchi della Pravda, infatti, Šostakovič visse con l’incubo dell’arresto e pensò anche al suicidio. L’articolo della Pravda è anche il manifesto di ciò che, nelle intenzioni del regime sovietico, deve essere la musica per il popolo.

Una donna oppressa, adultera e assassina, prigionieri deportati: gli elementi per turbare il sonno del regime ci sono tutti. E Šostakovič è dalla loro parte, anche da quella di Katerina: la sua empatia si percepisce.

Creare scandalo e suscitare animate discussioni è nel DNA del capolavoro operistico di Šostakovič: la ripresa al San Carlo dello spettacolo del National Opera Ballet Amsterdam firmato da Martin Kušej è stata preceduta da vivaci polemiche, sui social (sempre più la versione 2.0 dei vecchi loggioni) e sulla stampa locale: molto si è parlato su alcune trovate registiche, giudicate preventivamente troppo ardite e oscene, già durante le prove dello spettacolo. Eppure le scene incriminate - lo stupro della vecchia, l’amplesso tra Sergej e Katerina, la scena dell’ubriaco - sono nel libretto e, soprattutto, nella partitura così come il regista le ha trasposte sulla scena. Quello di Martin Kušej è certamente uno spettacolo dal crudo ed estremo realismo, un viaggio nella notte dell’abiezione umana. È però teatro, inteso nella sua accezione etimologica: théaomai, vedo, indago. Uno squarcio nel velo di ipocrisia che troppo spesso nasconde la realtà.

Uno spettacolo dunque che induce a “vedere”, a indagare ciò che di torbido c’è nell’animo umano, ciò che si nasconde dietro le convenzioni matrimoniali e familiari. Tutto è messo a nudo, come alcune figuranti, come la cuoca stuprata o, in ogni caso, ridotto all’osso, come i coristi in mutande, come l’essenzialità della scenografia: una regia che scava in profondità procedendo con sottrazioni.

Violenza, ipocrisia, rancore, desiderio di libertà, noia: tutto è presente in questo spettacolo. Uno specchio del mondo di Katerina, ma anche del nostro, contemporaneo e violento come quello di ieri: rendersi conto di ciò che si è piuttosto che di ciò che si vorrebbe essere, lacera, scandalizza. Da ciò, probabilmente, la discussione intorno alla scena dello stupro, della biancheria, dell’ubriaco che urina sul palcoscenico, degli invitati alle nozze che si appartano e copulano: si tratta di uno spettacolo che induce a porsi interrogativi; e le risposte quasi mai sono rassicuranti, anzi.

Il Teatro nasce per porre domande e dà risposte, a volte, che sarebbe stato meglio non aver ascoltato: questo è il suo compito.

L'opera è immersa in parallelepipedo delimitato dall’angusta scenografia di Martin Zehetgruber, che evoca con efficacia il senso di oppressione che aleggia sull’intero dramma. All’interno di questo spazio c’è la casa degli Izmajlov: l’onnipresenza dell’autorità patriarcale di Boris, del tedio, è racchiusa tra mura di vetro. La vita noiosa di Katerina, l’ipocrisia del suo matrimonio è visibile a tutti, così come la ricchezza della famiglia: numerose paia di scarpe costituiscono l’unico orpello della casa, l’unico indice del lusso. Il forte impatto emotivo si deve anche alle luci stroboscopiche di Reinhard Traub, che raggiunge la sua acme nel quarto atto: il doppio piano scenico crea un senso di profonda claustrofobia.

I prigionieri non hanno un precisa connotazione storica: sono gli oppressi di ogni epoca, ridotti a fantasmi, privati anche della loro identità, erranti in marce senza senso; sono schiacciati dal tetto della loro prigione, guardati a vista dai loro aguzzini con tanto di pastore tedesco al seguito, illuminati da torce elettriche.

Un’atmosfera di desolazione senza via d’uscita, resa scenicamente con il ricorso a una squallida struttura metallica, priva di elementi naturali. Neppure il lago nel quale annegano le rivali in amore Katerina e Sonjetka c’è: la giovane morirà strozzata da Katerina con le sue calze.

Per Šostakovič e per il regista questa "Lady Macbeth" è una donna tanto assetata di sesso e amore quanto quella shakespeariana lo è di potere; Katerina lancia urla di libertà che scardinano mondo oppressivo, divenendo prima carnefice e poi vittima. La vicenda è narrata indubbiamente con crudo realismo, ma senza autocompiacimenti fini a se stessi. Violenze, gli omicidi, il veneficio, i soprusi, gli amplessi furtivi costituiscono le tessere di un mosaico di desolazione, realismo e abiezione, come la musica (e il libretto) impone.

Se lo spettacolo stupisce per la profondità di contenuti, per l’intelligenza, e, malgrado ciò che può a prima vista apparire, per la devota aderenza alla spirito della partitura, l’aspetto musicale è a tratti sbalorditivo.

Merito di Juraj Valčuha, fresco vincitore del Premio Abbiati quale miglior direttore dell’anno 2017. La sua è una concertazione tesa, serrata, analitica, che esalta la ritmica ossessiva della partitura, i suoi lati grotteschi, graffianti, la violenza ossessiva, i tratti dal sapore espressionistico, la spigolosità dell’armonia.

Il quarto atto è immerso in una cupa e gelida atmosfera di desolazione e disperazione senza speranza: le sonorità orchestrali si assottigliano, i colori ingrigiscono, l’esplosione vitalistica della sessualità debordante di Katerina cede il passo a una elegiaca trenodia. Il gesto del direttore è tanto misurato quanto eloquente: asciutto, essenziale, chiaro negli interludi, sintesi delle atmosfere dei quadri dell’opera.

La fusione tra orchestra - in una delle migliori prove della stagione in corso - e coro è sorprendente. Un senso di pietà aleggia tra golfo mistico e palcoscenico: una gemma in una concertazione di rara sensibilità e precisione nel perfetto controllo di tutte le sezioni. Questa grande prova di affidabilità, compattezza ritmica e sonora quella delle maestranze orchestrali e corali (coadiuvate dal coro maschile del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo diretto da Andrei Petrenko) induce ad auspicare nella riproposizione costante dei capolavori musicali del Novecento.

Il cast vocale è eccellente in tutte le sue parti.

La Katerina Izmajlova di Elena Mikhailenko è una donna ribelle, determinata a rovesciare un’agiata ma noiosa vita di provincia: voce dal discreto volume, aggressiva, a proprio agio nel canto a voce spiegata, così come in quello più lirico e introspettivo, la Mikhailenko disegna una Lady Macbeth sottile, luciferina, insofferente, anche grazie alle qualità d’attrice.

Ludovit Ludha, invece, è uno Zinovi Izmajlov, succube del padre, tanto credibile scenicamente per la sua pusillanimità, per il timbro vocale poco virile che quasi induce a giustificare l’adulterio della moglie e la sua criminale ribellione! Interprete più adatto per la parte di Zinovi sarebbe difficile da immaginare. Del pari, il Sergej di Ladislav Elgr ha carisma scenico e voce stentorea, seppur priva di squillo; il personaggio approfittatore e perennemente arrapato è delineato con plastica evidenza.Dmitry Ulianov, dalla voce di ben timbrata, è il perfido Boris Izmajlov, padre padrone, emblema della meschinità imperante in casa Izmajlov.

Completano il cast la Sonjetka di Julia Gertseva, voce dal timbro scuro e seducente e dalla figura scenica teatralmente sensuale e il vecchio prigioniero di Vladimir Vaneev, basso dalla voce profonda, navigato specialista del repertorio russo; tutte degne di lode le parti secondarie, essenziali per un’opera “corale” come questa.

Al termine il pubblico apprezza - e molto - questa produzione, con applausi calorosi e prolungati (nessuna corsa al taxi questa volta) a tutti i protagonisti dello spettacolo e, in modo particolare, a Juraj Valčuha, il quale, produzione dopo produzione (al San Carlo ha diretto l’inaugurazione della stagione 2017 - 2018 con La fanciulla del West) si conferma essere una delle risorse più interessanti del teatro, per qualità delle esecuzioni e per la scelta del repertorio.

E chi, anche stavolta, forse spaventato dalla difficoltà dell’opera  e dalla scabrosità del soggetto, ha disertato (e, purtroppo, sono stati in molti, visti i “buchi” nei palchi...) ha sbagliato, e di grosso.


 

 

 
 
 

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