Lacrime nella nebbia
di Roberta Pedrotti
Il Festival Verdi 2018 si apre con la prima versione di Macbeth e vede giganteggiare Luca Salsi nei panni - ancor più impegnativi in questo caso - del protagonista. Al suo fianco degni deuteragonisti Anna Pirozzi come Lady e Michele Pertusi come Banco. Meno interessanti regia e direzione.
PARMA, 27 settembre 2018 - Sembra di vederlo, Verdi, che riprende in mano dopo diciotto anni le pagine di Macbeth e scuote la testa, cancella battute superflue con gran tratti di penna, accartoccia pagine, riscrive, rifinisce, ricrea la Lady come autentico, demoniaco motore dell'azione. Certe frasi fondamentali, poi, come “La vita!.. che importa!.. È il racconto di un povero idiota; vento e suono che nulla dinota!” gli saranno sembrate insopportabilmente impettite, retoriche, fasulle: da rifare senza pietà, per inventare il vero. Poi l'occhio cade sul Sonnambulismo, su “Pietà, rispetto, onore” e sul volto barbuto spunta una specie di sorrisetto: sì, non si può dire che siano venute male, ci sono dei momenti che anche a distanza di anni non si saprebbero far meglio, in cui la traduzione musicale di Shakespeare continua a funzionare. Splendidamente.
Il primo Macbeth verdiano, quello dato a Firenze nel 1847, non sarà tanto un capolavoro assoluto di per sé, quanto l'incunabolo del capolavoro rifinito per Parigi nel 1865, tuttavia la sua ragion d'essere non risiede nel genio distillato nelle pagine che sopravvivono intatte alla revisione. Almeno, non solo: in questo suo incedere più robusto, terragno, perfino un po' goffo nell'anelito a obbiettivi poetici raggiungibili con strumenti che l'esperienza deve ancora affinare, Verdi, more solito, dà un senso a ogni sua nota e fa sì che questo Macbeth non sia solo l'abbozzo di Macbeth, bensì anche un'altra lettura della tragedia, quella che rende protagonista non la coppia e l'idea stessa di potere, ma il solo signore di Glamis e Caudore asceso al trono di Scozia. È la sua parabola, quella che Verdi disegna, la parabola di un uomo solo che il potere progressivamente corrode nell'ambizione e nei fantasmi interiori, quasi personificati nella arie di un'ambiziosa consorte e di nobili vittime del suo delirio sanguinario, nei cori attoniti e dolenti della corte e del popolo. Il Macbeth del 1847 è esigentissimo con gli interpreti come quello del 1865, ma più di questo si regge sulle spalle dell'eroe eponimo.
Già nel 2013, per il bicentenario verdiano, Luca Salsi aveva affrontato con successo questa versione dell'opera in una superba edizione fiorentina [Fleggi la recensione]; oggi lo ritroviamo viepiù maturato come interprete in un titolo, e in una stesura, a lui particolarmente congeniali. L'esperienza ai massimi livelli mondiali ne fa un artista sempre più attento al dettaglio, alla rifinitura del recitar cantando, alla tornitura della parola all'interno del pensiero musicale. La qualità della voce, piena, timbrata, robusta, e il temperamento incisivo e sanguigno, tuttavia, enfatizzano naturalmente anche l'aspetto, feroce, barbarico del personaggio, che esplode nel delirio violento di “Vada in fiamme, in polve cada”. La brutalità di Macbeth è, però, l'altra faccia della medaglia di un uomo immensamente fragile, sconfitto, incapace di reggere al peso non solo delle aspettative della Lady, ma anche della sua stessa ambizione, della sua stessa indole, quasi spaventato dalla belva che sente in sé e incapace di resistervi. Sviluppa l'ossessione, precipita via via in una dimensione allucinata e violenta, senza tuttavia perder completamente la coscienza, che riaffiora nella cavata magnifica di “Pietà, rispetto, onore” e negli accenti taglienti del monologo finale “Mal per me che m'affidai”. Una prova superlativa, tanto più impressionante se si pensa che il baritono parmigiano alterna queste recite con quelle di Ernani al Teatro alla Scala.
Un altro parmigiano condivide con Salsi l'onore della scena e l'onere di un mese assai impegnativo (anche lui alla Scala, nonché Attila per una recita ancora al Regio): Michele Pertusi tiene anche quest'anno a battesimo il Festival verdiano dopo la Jérusalem del 2017 [leggi la recensione] e regala con il suo Banco un'altra lezione esemplare di eleganza, nobiltà, accento, musicalità, intelligenza. Dimostrazione che anche un velluto vocale prezioso come il suo non avrebbe fascino, né lo conserverebbe tanto a lungo, se la natura non si accompagnasse all'arte.
Attenta e agguerrita, Anna Pirozzi difende strenuamente le istanze di una Lady che, in questa versione, patisce forse più in qualità che in quantità dei suoi interventi: sì, la perdita del duetto del terzo atto limita di molto la sua influenza drammatica, ma soprattutto l'asperrima “Trionfai, securi alfine” offre tante difficoltà e poche soddisfazioni, rispetto alla parigina “La luce langue”, così come nel duetto del primo atto ha meno occasioni di far valere frasi ambigue e insinuanti. Non solo fa valere la salda ampiezza della voce e si mostra spavalda nelle puntature acute anche là dove la scrittura belcantistica non pare delle più agevoli per la sua vocalità di lirico spinto, ma soprattutto nel Sonnambulismo fa ben intendere d'aver studiato con caparbietà le indicazioni verdiane per un'espressione alienata e straniante.
Subentrato durante le prove al previsto Vincenzo Costanzo, Antonio Poli come Macduff fa ascoltare ancora una volta la sua bella voce. Matteo Mezzaro è un Malcolm parimenti dotato di mezzi interessanti cui si consiglia di fare attenzione a non cercare un suono più largo affrontando Verdi. Alexandra Zabala è un'ottima dama, Gabriele Ribis, Giovanni Bellavia e Adelaide Devanari completano la locandina nei panni del medico, del sicario, del domestico e delle tre apparizioni. Il coro preparato da Martino Faggiani affila le sue armi in crescendo fino all'appuntamento atteso con “Patria oppressa” (sorpresa! Dunque l'edizione critica svela che la Scozia non era citata nell'incipit originario).
Se le soddisfazioni sono garantite da un cast di valore, con un protagonista che già aveva approfondito questa versione dell'opera, una delle Lady di riferimento del panorama odierno e un Banco di classe sopraffina, resta interlocutoria l'impressione destata da regia e concertazione.
Sul podio, Philippe Auguin è corretto, la Filarmonica Toscanini e l'Orchestra giovanile della via Emilia offrono una buona prova, ma la tensione scorre a corrente alternata, appesantendo certi schematismi del giovane Verdi con un pensiero direttoriale che pare scandito a blocchi e sequenze, senza autentico mordente nei tempi e nelle dinamiche.
Nondimeno, Daniele Abbado punta tutto su una bella intuizione scenografica (assistente all'allestimento scenico Edoardo Arcuri) e anima un palco quasi nudo, occasionalmente circoscritto da sipari traslucidi, con l'apparire ciclico di una pioggia sottile, di una foschia che le luci di Angelo Linzalata fanno vivere e trasformano talora in spettri inafferrabili. Al di là di questa suggestione e della sobria eleganza dei costumi di Carla Teti, poco altro: uno spettacolo, semplice, lineare, senza particolari crismi d'originalità e qualche ambizione irrisolta. In particolare il terzo atto, che come visione grottesca, festino kitsch con qualche ammiccamento al metateatro rivelatore di Amleto non riesce a convincere, resta nel limbo delle intenzioni incompiute. Alla fine, comunque, son parse eccessive le contestazioni per uno spettacolo che non morde nel testo come si auspicherebbe e non centra sempre il bersaglio. Viceversa, i cantanti avrebbero meritato calore ancor maggiore: per una prova come quella di Salsi, tanto più che si tratta di un genius loci, ci saremmo aspettati ovazioni tonanti, che siamo certi arriveranno alle repliche.
foto Roberto Ricci