L'opera insegna a vivere
di Pietro Gandetto
A pochi giorni dalla prima del Don Giovanni con la regia di Robert Carsen e la direzione di Paavo Järvi al teatro alla Scala, incontriamo Luca Pisaroni, al suo debutto al Piermarini, nel ruolo di Leporello. Il bass-baritone italiano ci racconta com’è nata la passione per il canto nell’infanzia trascorsa a Busseto, luogo verdiano per eccellenza, l’importanza di Mozart nella sua carriera internazionale che lo ha visto calcare i maggiori palcoscenici del mondo e il ruolo della musica oggi, vista dall’artista non solo come forma di spettacolo, ma come strumento per imparare a vivere in questo difficile momento storico.
Il tuo destino sembra internazionale fin dalla nascita in Venezuela. Ci puoi raccontare qualcosa di questi primi anni e della nascita della passione per la musica, della scelta di dedicarti a questa professione?
Sono nato in Venezuela da genitori italiani e sono tornato in Italia nel ‘78 quando avevo 3 anni e mezzo. Mia mamma è di Busseto e a casa mi aspettava mio nonno materno, Franco, che era appassionato di opera e aveva una vastissima collezione di dischi di Verdi. Ricordo che quando avevo 9 anni, d’estate ascoltavo queste audiocassette per giornate intere e in una di queste estati, molto calda, fui folgorato da Boris Christoff che cantava "Ella giammai m’amò". Poi a undici anni sentii Pavarotti che cantava il "Nessun Dorma" per i mondiali dell’86 e in quell’esatto momento ho deciso che sarei diventato un cantante d’opera. Sono stato fortunato ad avere la voce per farlo. Gli anni bussetani sono stati per me come un’incubatrice dove respiravo quest’aria “verdiana” che mi ha letteralmente inebriato della passione per l’opera. Da ragazzino ero molto impopolare, perché non avevo amici che amavano l’opera, mentre per me era come un linguaggio speciale che usavo per esprimermi.
Debutto in Austria e una carriera che ti ha portato ai massimi livelli internazionali, ma toccando molto raramente l'Italia. Un caso, una scelta? Ti piacerebbe tornare più spesso nei nostri teatri?
È un caso. Ho fatto molte audizioni in Europa dove mi hanno offerto bellissimi ruoli che ho accettato e così ho sviluppato questo tipo di carriera. Non è stata una scelta mia tesa a evitare l’Italia per qualche ragione, è successo così. Talvolta sono stato invitato ma non ero libero, ma mi piacerebbe molto frequentare più assiduamente i teatri italiani.
Dall'estero, come vedi la situazione della musica in Italia? E quali sono gli aspetti più stimolanti del lavoro nei teatri stranieri come per esempio quelli di Vienna?
In Italia è tutto più difficile per varie ragioni. È molto triste perché nel nostro paese abbiamo grandissime orchestre, grandi musicisti e cantanti del coro, purtroppo per scelte politiche e anche per la mancanza di cultura ci sono meno investimenti nell’opera, e questo immenso patrimonio non viene valorizzato come dovrebbe. Da italiano soffro di ciò. Al contrario, in una città come Vienna ci sono tantissimi teatri e sale da concerto e ogni sera l’offerta musicale è altissima perché i cittadini viennesi sono orgogliosi del proprio patrimonio musicale. L’opera in Austria è una questione nazionale, ha un’importanza altissima.
Mozart è il centro del tuo repertorio. Hai subito capito quale fosse l'ambiente naturale per la tua voce?
Mozart è sempre stato al centro miei interessi. Io ho sempre guardato prima di tutto alla longevità della mia voce. La scrittura vocale e la dimensione dell’orchestra in Mozart consentono a un cantante di crescere e maturare tecnicamente senza correre il rischio di un precoce declino. Diversamente dal Belcanto o da Verdi dove la scrittura vocale e lo spessore orchestrale richiedono una maturità e una coscienza dei propri mezzi più approfondita. Ricordo per esempio una produzione delle Nozze di Figaro a Salisburgo con Ferruccio Furlanetto in cui lui aveva 41 anni e cantava questo repertorio con una morbidezza e una leggerezza incredibili. E li ho capito l’importanza di Mozart. Cantare Mozart è come fare una lezione di canto. Un’altra cosa che adoro in Mozart è la teatralità, perché le sue opere sono come bellissimi film, con una bellissima colonna sonora e consentono di fare regie e scenografie geniali.
A Busseto sei tornato per un concerto verdiano con tuo suocero Thomas Hampson: quali sono state le emozioni di quella serata?
È’ stata una serata particolare. Conoscevo tutti nel pubblico perché sono le persone che mi hanno visto crescere a Busseto. La cosa più dura è stata cantare dando le spalle al monumento di Verdi, sicché quando cantavo il duetto del Don Carlo, mi ricordo che pensavo: vuoi vedere che adesso Verdi mi picchia sulla spalla e mi dice di smetterla? (sorride) È stato davvero molto emozionante cantare Verdi a Busseto dove sono cresciuto.
Leporello è uno dei tuo cavalli di battaglia. Come lo reinventi ogni volta? Leporello è solo il servo di Don Giovanni come comunemente si crede, o è anche qualcos’altro?
Ho cantato Leporello novantacinque volte ma ogni volta è come la prima. Talmente è profonda la musica che ogni volta riesco a trovare sfumature diverse, a trovare nuovi colori, nuove sfaccettature psicologiche. Il segreto per non cadere mai nella routine facendo un ruolo così tante volte è “ascoltare”. Quando sono in scena, ascolto come se fosse la prima volta che Don Giovanni o gli altri personaggi parlassero con me. Questo l’ho imparato dal grande regista tedesco Martin Kusej a Salisburgo nel 2002. Tutti i cantanti sono sempre preoccupati per l’acuto che arriva, per quello che succede dopo, invece il segreto è ascoltare ciò che l’altro personaggio ti ha detto prima e reagire di conseguenza. E allora il personaggio acquisisce ogni volta una freschezza e una vitalità nuove.
Trovo che Leporello sia un ruolo geniale, ha tutte le caratteristiche dell’essere umano: con i suoi pregi e difetti. Adoro la relazione tra Don Giovanni e Leporello. Sono come una coppia sposata, si lamentano ma si amano. E la vita dell’uno senza l’altro sarebbe inimmaginabile. Leporello è il testimone della vita di Giovanni: senza di lui la storia di Giovanni non verrebbe raccontata.
E Don Giovanni?
Secondo me Don Giovanni è un insaziabile, innamorato dell’idea di essere innamorato. Questo lo fa impazzire perché è inebriato dalla seduzione. È simile alla sensazione di chi vive sul palcoscenico. Per me il palcoscenico è come una droga. Indipendentemente dall’opera, avere la possibilità di comunicare attraverso il canto mi dà adrenalina. E questo meccanismo secondo me è simile a quello che prova Don Giovanni, quello che lo spinge a cercare la conquista.
Qualcosa su questa produzione? Com’è lavorare con Robert Carsen?
Robert è una persona molto intelligente. Anzitutto è musicista, e poi è uno di quei grandi registi che “lavora a casa”: arriva in palcoscenico e offre un prodotto rifinito, già ideato e pronto e questo ti porta a rispettarlo e a capirlo. Ti viene naturale dare forma all’idea che lui ti propone. Poi è estremamente chiaro e sintetico, in tre parole ti dice cosa vuole e quindi sei stimolato a fare bene. I grandi registi sono quelli capaci di provocare l’emozione giusta in te per esprimere realmente il personaggio. E poi Robert ha un senso estetico immenso. Ho fatto Alcina con lui a Parigi ed era uno spettacolo di un’intelligenza e di una bellezza incredibili.
Questo è il tuo debutto alla Scala, cosa rappresenta per te questo teatro? E cosa ti aspetti dal pubblico della Scala?
Sì è il mio debutto alla Scala e sono abbastanza terrorizzato. Ho studiato al Conservatorio di Milano e andavo sempre alla Scala nell’era Muti. Sognavo di venire a cantare qui e ora che succederà sono davvero emozionato. Alla prima prova di scena sono entrato e vedere il teatro dall’altra parte è molto diverso da vederlo come spettatore. C’è molta voglia di fare bene, molta emozione. Essendo il mio debutto non so come sarà il pubblico. Spero di soddisfare le aspettative.
Il ruolo dei sogni che non hai ancora interpretato? E l’autore da portare su un’isola deserta?
Come autore, ti direi Giuseppe Verdi. L’immediatezza della sua musica e la sua capacità di andare in profondità con pochi accordi, per me sono irraggiungibili. Io sono cresciuto a pane e musica di Verdi e c’è qualcosa nella sua musica che va dritto al cuore. Opere che adoro di Verdi sono Don Carlo, Ernani, Otello, Falstaff. Se proprio dovessi scegliere un ruolo, ti direi Filippo II. È un personaggio così completo, così umano, così ricco di contrasti. È l’apice del genio compositivo di Verdi.
In questi giorni non è facile non gettare uno sguardo all'attualità. Da artista cosmopolita sempre in viaggio per il mondo, come vedi la situazione contemporanea e il ruolo della musica nella società attuale?
È un periodo non facile per tutti, abbiamo in generale molti problemi e l’errore peggiore è quello di chiudersi nella difesa cieca della propria nazionalità, escludendo tutto ciò che non ne fa parte. Al contrario, dovremmo capire che abitiamo tutti lo stesso pianeta e che le cose che ci accomunano sono maggiori di quelle che ci dividono. Il tempo che abbiamo nella nostra vita è talmente breve che perderlo in lotte è veramente stupido. Io trovo che la musica non sia solo intrattenimento, ma che abbia radici che vanno molto più in profondità. La musica non è la colonna sonora di una vita, mentre si sta facendo altro, ma insegna a vivere con gli altri. Se pensi cosa ci vuole a allestire un’opera, devi ascoltare, rispettare il lavoro degli altri, imparare a seguire il direttore d’orchestra e il regista anche quando hanno idee differenti dalle tue. Questo aiuta ad avere molta pazienza e a capire che quando c’è una persona davanti a te devi chiederti cosa vuole quella persona, immedesimarsi con lei e avere empatia. Con questo approccio i conflitti si ridurrebbero drasticamente.
Luca Pisaroni e Thomas Hampson, foto Catherine Pisaroni