L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Renaissance e filologia

 di Andrea R. G. Pedrotti

Dopo la storica ultima Norma con Mariella Devia, prima dell'attesissimo ritorno alla Scala del Pirata di Bellini, abbiamo intervistato Riccardo Frizza. Il maestro bresciano da poco nominato direttore musicale del Festival Donizetti di Bergamo ci racconta i momenti e gli incontri più importanti della sua carriera, i suoi progetti, le sue idee sulla filologia, il repertorio, il rapporto con le voci.

Maestro Frizza, partiamo dai suoi inizi. Lei si è fatto conoscere all'inizio degli anni Duemila nei principali festival italiani.

Il mio primo impegno importante è stato Rigoletto a Parma, per il Festival Verdi del 2001; poi nella stessa estate ho debuttato al Rossini Opera Festival, che consideroil mio vero punto di partenza, la mia prima grande opportunità, anche perché in realtà è stato il primo contratto ad alti livelli che ho firmato. Quelli erano anni molto ferventi a Pesato: Zedda mi volle per lo Stabat Mater, sotto la direzione artistica di Luigi Ferrari. L'anno dopo fu la volta del Turco in Italia con un'orchestra radunata per l'occasione: erano giovani e fu un lavoro complicato, conclusosi comunque positivamente. Poi nel 2004 fu la volta di Matilde di Shabran, nel 2006 di Adelaide di Borgogna. Anche a Martina Franca debuttai nel 2001 e sono ritornato nel 2013 con Giovanna d'Arco, una produzione che mi era stata proposta un po' all'ultimo momento. Un Verdi giovane con una chiave di lettura belcantistica, particolare.

Rossini, comunque, sembra essere centrale per l'inizio della sua carriera.

Mi ha aiutato molto dal punto di vista musicale: ritengo Rossini il padre di tutti i compositori successivi, in ognuno dei quali si riconosce il suo embrione, in Donizetti, Bellini, Verdi. Sarebbe stato molto più difficile partire da altri autori. L'esperienza rossiniana mi ha aiutato in tutto, credo che la sua estetica sia talmente unica che consente di approfondire anche quella di altri autori e di un successivo romanticismo più patetico. Il suo linguaggio guarda, sì, evidentemente al passato, ma apre un futuro incredibile.

Pensa, quindi, che sia questo il suo repertorio d'elezione?

Non ho specifiche preferenze nel repertorio, ma chiaramente un amore particolare per quello italiano. L'autore che ho affrontato di più è stato Giuseppe Verdi, di cui ho già affrontato venti opere e ho potuto scoprire cose molto interessanti: Otello, Aida e Rigoletto sono le opere che ho diretto di più e Otello quella che ho studiato di più. Si presta molto a questo. Bisogna tener sempre presente che cosa c'è stato prima e da dove viene questo repertorio.

Come si muove, nel concreto, per interpretare opere di autori diveri o in contesti diversi?

Non mi piace ragionare per definizioni come "belcanto" o scatole chiuse, l'importante per me è cantare bene. Noi non sappiamo, se non dalle cronache (spesso contraddittorie), come cantassero i diversi interpreti ai tempi dei compositori. Dobbiamo lavorare con le voci di oggi e con le vocalità che abbiamo oggi. Affrontare Norma con Mariella Devia, o con Sondra Radvanovsky ovviamente non è la stessa cosa. A seconda della voce o del tipo di inteprete cambia l'approccio, non si può avere un prodotto preconfezionato sempre uguale a se stesso. Relazionarci alla voce che abbiamo a disposizione: possiamo dire che sia giusta o sbagliata, ma questo è tutto un altro discorso. Cerco sempre di dare al cantante la possibilità di esprimersi al meglio delle proprie potenzialità. L'importante è dare il senso giusto alla cantabilità della frase.

Anche per quel che concerne le voci Il pirata alla Scala è un appuntamento particolarmente atteso. Ce ne può parlare?

Cercherò di essere un interprete il più fedele possibile al dettato musicale. All'epoca della Callas e di Corelli, naturalmente, il gusto e il modo di cantare erano molto diversi, rispetto all'epoca di Bellini. L'unica certezza è la scrittura musicale del compositore e questa può essere approcciata in maniera filologica, evitando i tagli degli anni '50, quando si cantava un terzo dell'opera, e quindi si può capire che lo sforzo sia ben diverso. L'importante, come dicevo prima, è sapersi approcciare ai cantanti che abbiamo a disposizione oggi. Ricordiamo che il Pirata è un'opera al limite delle capacità umane, soprattutto per tenore e soprano. Oggi dobbiamo cercare di eseguirla integralmente, anche perché abbiamo una coscienza filologica differente, rispetto all'ultima esecuzione scaligera. Abbiamo altre prospettive e dobbiamo tenere in considerazione che abbiamo persone in palcoscenico, costrette a uno sforzo sovrumano e arrivare in fondo è veramente difficile per un cantante e bisogna studiare e lavorare molto bene.

I tagli di Votto potevano essere utili per agevolare i cantanti. La prima aria di Gualtiero veniva aggiustata, perché non adatta alla vocalità di uno che comunque è stato uno dei cantanti più grandi dell'epoca. Non credo fosse un problema di fruibilità.

Il discorso vale anche per Anna Bolena. Ora servono vocalità più leggere, perché l'esecuzione integrale chiede un sostegno continuo nel registro acuto, non si può domandare a un soprano più lirico di sostenere una tessitura simile per oltre tre ore.

L'attenzione del pubblico dei tempi di Donizetti era probabilmente inferiore a quella di oggi, mentre il pubblico che va ora all'opera ha pretese più alte e pretese d'eccellenza sotto tutti i punti di vista esecutivi.

Un altro impegno importante che si avvicina è quello con il Festival Donizetti di Bergamo.

Il mio ruolo sarà quello del responsabile di alcune scelte circa il coro e le orchestre ospiti, ma anche di lavorare fianco a fianco con musicologi, per la riscoperta del repertorio e della vocalità donizettiani. Come diceva Alberto Zedda tutte le voci potevano cantare rossini, ma andavano educate alla fioritura. Ora se una voce ha una pasta più corposa, viene subito indirizzata verso un '800 inoltrato e non si guarda indietro. Alberto ci ha messo molti anni prima di creare una scuola rossiniana, ha creato una coscienza e, anche grazie a lui, abbiamo avuto interpreti capaci di cantare per intero opere rossiniane. Questo vale anche per Donizetti, ma va sperimentato. Per esempio, senza la cadenza aggiunta potremmo in Lucia di Lammermoor potremmo utilizzare un soprano più lirico, con molta più presa drammatica, molto più peso e molta più coerenza. Oggi tutti aspettano quella cadenza non di Donizetti, ormai di tradizione, il pezzo di bravura del soprano. Oggi siamo, per questo, costretti all'utilizzo di un soprano leggero.

Nomina spesso il maestro Zedda, qual è stato il suo rapporto con lui?

Sarò per sempre grato a Zedda e Bruno Cagli che hanno sempre creduto in me. Alberto mi venne a sentire in un concerto a Fano nel 2000 e mi volle subito a Pesaro, Bruno Cagli lo stesso a Parma. Nasco in quell'ambiente e dalla loro visione. Alberto era un grande filologo e un grande musicista e una figura per me fondamentale. Mi aveva scritturato e sostenuto quando non avevo mai diretto un'opera invitandomi a credere alle mie idee. Per me Zedda era Rossini in terra. Ci sentivamo spesso anche con Cagli e Gossett, con i quali ho lavorato molto. L'ho incontrato poco prima che morisse a Chicago. Per me Cagli, Zedda e Gossett sono stati e resteranno sempre tre punti di riferimento importantissimi.

Con questi punti di riferimento, come si rapporta alla filologia musicale?

Sono sempre stato appassionato di filologia, per seguire il dettato musicale anche con gli strumenti moderni. Il testo musicale è fondamentale, ma il mondo si evolve. Donizetti, Rossini e Verdi usavano strumenti differenti. Se va al Louvre di Parigi e fa una fotografia deve pensare che l'interpretazione, gli spazi, le emozioni sono differenti dai tempi di Leonardo. I teatri sono diversi strutturalmente dall'800 e non sappiamo qual era il gusto dei contemporanei, almeno non precisamente. L'unica soluzione è attingere dalla fonte principale. Non sono un grande fruitore della discografia, ho studiato composizione e voglio capire che cosa ci sia dietro una determinata nota e perché sia stata scritta così dal compositore, senza essere influenzato da altri punti di vista. Io sono un mezzo che collega il compositore al pubblico, un interprete e non voglio essere più di questo. Non possiamo conoscere tutto e quindi sono molti gli aspetti da valutare con attenzione rispetto alla prassi esecutiva: per questo la filologia è fondamentale per capire che cosa abbia scritto effettivamente il compositore.

Pensando ai tre titani della Rossini Renaissance è difficile ai molti titoli di Rossini serio che lei ha diretto in tutto il mondo, compresa Armida al Metropolitan di New York. Come vede la ricezione del Rossini serio oggi, in Italia e all'estero?

Per me il vero Rossini è il Rossini serio. Oggi le opere della maturità, per esempio, sono adorate in Francia, mentre fino a qualche anno fa come Semiramide o La donna del lago erano opere di nicchia. Si faceva più Tancredi, forse anche più abbordabile a causa di una durata maggiormente contenuta. Pesaro ha avuto una grande importanza nella divulgazione verso un pubblico principalmente straniero. Non dimentichiamo che anche a Wildbad, in Germania, esiste un festival rossiniano. Rossini si è fatto conoscere e riconoscere.

Penso che la possibilità dei grandi titoli rossiniani di entrare in repertorio sia legata alla presenza di determinati cantanti che siano in grado di affrontare il repertorio: penso a Florez, alla Barcellona o alla Didonato per esempio. Hanno Rossini nel DNA e hanno aiutato alla divulgazione vista la loro capacità di eseguire questi ruoli per intero, poiché i tagli di un tempo non sarebbero più possibili. Non dimentichiamo il lavoro di Chailly, Matteuzzi, Blake: artisti straordinari che hanno fatto conoscere questo repertorio. È un discorso di generazioni che non vale solo per Rossini. La popolarità di Medea o Norma è legata a grandi artiste come la Caballé o la Callas. Spero sia lo stesso anche per Rossini. Mi auguro ci siano sempre interpreti rossiniani per tenere questi titoli in repertorio. Pensiamo alla Fille du régiment, era quasi sparita e ora è tornata come una delle opere più eseguite.

E più in generale, nel suo ruolo di direttore come vive il rapporto con pubblici diversi?

Il lavoro per me è sempre lo stesso e non cambia nulla. Il direttore non deve mai tradire l'autore: sono nato al Rof e devo essere sempre coerente al compositore. Un direttore d'orchestra non dovrebbe badare a un desiderio di innovazione fine a se stesso o al desiderio di far parlare di sé. Io devo trasmettere ciò che il compositore ci ha lasciato.

Il pubblico italiano è il più conservatore e legato al passato, nutre un legame affettivo verso cantanti che non hanno mai sentito dal vivo. Francesi e americani sono molto più aperti e vedono il teatro come forma di intrattenimento. Il pubblico tedesco è storicamente quello che ha vissuto sempre per primo i grandi cambiamenti e sono molto aperti a reinterpretazioni, a volte interessanti, a volte eccessive, ma le accettano (o sopportano) sempre. Noi siamo ben più gelosi di questo e vorremmo preservare questo patrimonio com'era alle origini. Credo sia una questione di forma mentis.

Il suo ultimo impegno italiano è stato Norma con l'addio alle scene operistiche di Mariella Devia. Cosa ci può dire di questa esperienza?

Il nome della Devia si può scrivere accanto a quello della Callas, della Tebaldi, della Caballe. Ha segnato un'epoca nel suo repertorio. Per me è stato un onore e un piacere dirigere questa Norma. Conobbi a Pesaro Mariella in occasione della Donna del lago. Nel 2007 abbiamo debuttato assieme in Maria Stuarda e abbiamo fatto tanti concerti. E' una cantante, artista e persona molto intelligente, non ha mai fatto un errore vocale o di repertorio; fa invidia alle venticinquenni per forma vocale. Come ha detto lei stessa, “ha deciso di lasciare le scene, prima che le scene lascino lei”. E' una grande donna che lascia un ricordo strepitoso. Come potrei non essere onorato di essere stato parte di questo evento?

Quali sono i suoi progetti per il futuro, i campi che più la interessano e che vorrebbe esplorare?

Nei prossimi anni vorrei completare per intero il catalogo verdiano, sto per fare I lombardi a Bilbao e spero di dirigere spesso anche le altre.

Sono molto impegnato nel progetto con Francesco Micheli a Bergamo e impegnarmi per fare di Bergamo un'altra Pesaro, col sostegno dell'amministrazione comunale. A Parigi abbiamo fatto dodici esauriti su dodici recite per Lucia. È un autore amato e vorrei che le persone si immergessero in Donizetti e venissero a Bergamo.

Proprio a Bergamo faremo la Creazione di Haydn in italiano, trascritta da Giovanni Simone Mayr, sul cui autografo ho lavorato direttamente, solo dopo anni dopo la prima esecuzione. Questa trascrizione fu oggetto di studio per gli allievi di Mayr: è incredibile scoprire come circolasse la cultura, anche nel caso di un oratorio. Si potrebbe fare un discorso simile anche pensando a Meyerbeer e Rossini, ai loro contatti, alle loro influenze internazionali.

Di Mayr conosco bene un capolavoro assoluto come la Medea in Corinto: può sembrare Haydn o Mozart, ma sviluppa delle situazioni drammatiche incredibili assolutamente protoottocentesche, con un grande libretto di Felice Romani. È interessante anche notare come gli autori affrontassero diversamente scene drammaticamente simili scritte dagli stessi librettisti. In questo caso penso a Norma, rispetto alla quale in Mayr si sente ovviamente la formazione classica. Lui e gli autori della sua generazione andrebbero rivalutati, perché inventarono determinate situazioni, poi sviluppate da altri, come finale o ad altri numeri chiusi.

Mi piacerebbe anche, in futuro, approfondire il repertorio tedesco. Spesso i direttori italiani, anche in italia, sono considerati buoni solo per autori italiani. Vorrei fare un raffronto temporale, musicale, culturale, comparare l'approccio musicale, armonico fra autori come Gounod, Massenet, Wagner, Strauss e i loro contemporanei italiani.

Per quanto riguarda il repertorio sinfonico, ho fatto diversi concerti e vorrei approfondire il mio rapporto con Mahler: le sue sinfonie sono tutte bellissime, ma vorrei dirigere la II, la III e la VI. Ho fatto la I la IV e la V, ma so che non essendo direttore musicale di un'orchestra affrontarle tutte sarebbe molto difficile.

Grazie per la disponibilità e in bocca al lupo per i suoi impegni futuri.

 

foto © Joan Tomás - Fidelio Artist


 

 

 
 
 

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