L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Dar forma ai sogni impossibili

 di Roberta Pedrotti

Trent'anni fa, era l'estate del 1990, si tenne il primo concerto dei Tre Tenori; José Carreras, Luciano Pavarotti e Placido Domingo si esibivano per la prima volta insieme con Zubin Mehta sul podio. Il resto, verrebbe da dire, è storia, per una serata entrata nel mito, che ha ispirato innumerevoli revival (e imitazioni). Eppure, quando la storia assume i contorni della leggenda, capita che questi contorni appaiano talora un po' sfocati e confusi. Ce ne siamo accorti, per esempio, di fronte al lacunoso racconto del docufilm su Pavarotti di Ron Howard. Allora, meglio rivolgersi a chi questa storia l'ha vissuta in prima persona. Anzi, l'ha creata.

La disponibilità di Mario Dradi, fra gli agenti artistici e produttori d'eventi più importanti di questi ultimi decenni, a una conversazione telefonica è l'occasione per ripercorrere la storia dei Tre Tenori, ma anche per volgere uno sguardo al presente e al futuro, alla situazione dei giovani artisti di fronte alla chiusura dei teatri, alla figura dell'agente e a quella del produttore, fra luci e ombre, creatività e duro lavoro, con uno sguardo volto comunque al futuro, sempre attivo senza perdersi d'animo.

La storia comincia a una cena a Chianciano nel giugno 1989 dopo un concerto di José Carreras, nel Parco delle Terme. Lo stesso infatti, dopo la malattia, stava riprendendo l'attività soprattutto concertistica anche a sostegno della sua fondazione per la ricerca contro la leucemia. Fra gli ospiti, c'è anche il primo cittadino della Capitale, e l'appuntamento dei Mondiali di Calcio in Italia si avvicinava.

Il sindaco di Roma invitò Carreras a tenere un concerto per i Mondiali di calcio, conoscendo la sua passione per questo sport. Carreras molto intelligentemente gli rispose “Guardi, io di concerti a Roma ne ho già fatti cinque. Che ne faccia uno in più o uno in meno non cambia assolutamente nulla: bisogna inventare una cosa diversa, altrimenti un altro recital si perde, fra mille eventi.” E mi laciò una sfida, mi disse “Mario, inventati una cosa, prova a fare qualcosa che nessuno ha mai fatto prima.” Fu quasi una boutade buttata lì al momento, ma quella notte stessa, tornando poi a Roma in macchina con lui, continuai il discorso proponendo la mia idea. Lui mi fece presente quali fosse i problemi, primo fra tutti la “diffidenza”, diciamo così, fra Placido e Luciano, che era ben nota. Però decisi di provarci ugualmente, di contattarli e vedere cosa sarebbe successo. Una chiave fu Zubin [Mehta], perché disse subito di sì. Anzi, disse di sì a condizione: “ Dradi, questo è un impossible dream, un sogno impossibile, non lo faranno mai. Però, se lei ci riesce, io ci sarò.” Fu molto chiaro. Tant'è che il video che facemmo dopo con immagini le prove e da cui sono tratti anche i filmati che ha visto nel film di Ron Howard, si chiama appunto The impossible Dream.

Bene, lì cominciò la storia. Il 5 dicembre riuscii a radunarli tutti all'hotel Asler di Roma. Non le posso raccontare cosa avvenne al primo incontro: la scena era surreale! Però, alla fine li convinsi a spostarci in una sala dove c'era un pianista, il Maestro Guerrini, di Firenze. Lì cominciammo a provare delle canzoni napoletane ( abbiamo registrato questo incontro in un video). La musica ha operato il miracolo di superare le ostilità iniziali e le diffidenze e così è nato il concerto.

Poi, dopo il grande evento di Caracalla, io d'accordo con loro intrapresi un altro progetto: si chiamava Tenors e l'idea era di fare ancora tre atti di opera ogni sera : faccio degli esempi a caso, Carreras cantava l'ultimo atto dell'Elisir d'amore, Domingo cantava quello dell'Otello, e Pavarotti quello di Tosca; la sera dopo e quella dopo ancora si scambiavano i ruoli, i titoli rimanevano però gli stessi. Era anche un modo di dimostrare che loro erano anche tenori a tutto tondo, al di là delle etichette di leggeri, drammatici, lirici, lirici spinti... erano tenori e basta e potevano cantare quasi tutto il repertorio. Questa era l'idea. Andai a Tokio, parlai con il maestro Ozawa, individuammo le sale, le orchestre, ma proprio mentre ero in Giappone mi telefonò Carreras, mi chiese quando sarei tornato e di passare da Vienna. Il giorno dopo ero a Vienna, all'Hotel Imperial dove c'erano Domingo, Carreras e Carlos Caballé, che era il fratello di Montserrat ma era anche manager di Carreras. Mi fecero vedere un fax di Tibor Rudas, che aveva cominciato a fare dei concerti con Pavarotti e diceva di voler ripetere il concerto dei Tre Tenori a Los Angeles. Voleva l'esclusiva, non voleva che cantassero insieme per i successivi quattro anni, fino all'evento statunitense e metteva nel piatto una cifra talmente grande che era impossibile dire di no. Quattro milioni e mezzo di dollari a testa. Mi ricordo che Domingo mi chiese : “Cosa dobbiamo fare?” ed io risposi: “ Firmare il contratto… Ti danno quattro milioni e mezzo per cantare O sole Mio, cosa vuoi fare, non firmarlo?” Questo fu l'inizio.

Poi il signor Rudas ha commesso alcuni errori, per esempio – è cosa nota, è andata nei giornali, quindi non sto svelando misteri – convinse i tre che, avendo loro fatto un concertino a MonteCarlo in una saletta da trecento posti, in America poteva passare come una trasferta di un gruppo già organizzato, per cui non avrebbero pagato le imposte americane. E questo fu, ahimé, malamente accettato da tutti e tre. Ma non da Zubin, il quale disse che non gli importava: “Io pago le tasse in America. Quello che ricevo, io lo dichiaro.” Quindi gli altri dichiararono una cifra infinitamente, ridicolmente bassa, anche se devo dire che non fu colpa loro se si lasciarono persuadere da Rudas, mentre Zubin dichiarò due milioni, che era quello che prendeva. Qualche anno dopo un giudice americano li ha chiamati e ha chiesto notizie, rifiutandosi di pensare che il maestro Mehta prendesse due milioni di dollari e il maestro Pavarotti 100.000. Il giudice non ci ha creduto, per cui sono stati costretti, seppure con ritardo in trovandosi in una situazione piuttosto imbarazzante, a pagare. Quando si parla di queste cifre non conviene cercare di fare i furbi, perché prima o poi ti verranno a cercare. Il fisco statunitense, poi, è implacabile, non si può sfuggire.

Rudas ha comunque continuato a fare questi concerti, a volte appoggiandosi ad un produttore tedesco, un certo Hoffmann. Si trattava di cachet importantissimi. Quanto alle trattenute fiscali, Il signor Hoffmann non le versava. Tant'è che poi l'hanno anche arrestato. Ahimé, parliamo di tre straordinari cantanti, ma non di altrettanto attenti osservatori delle questioni fiscali.

Nel verbale del processo, poi, si legge che Hoffmann avrebbe dichiarato che i tre erano tanto avari e avanzavano tali pretese che “per sopravvivere” aveva “dovuto” rubare... Pensi che simpatico personaggio!

Poi, a un certo punto, Rudas si mise in testa che la storia dei tre tenori era finita. Allora mi cercò, mi lasciava dei messaggi, ma io ero in barca e alla fine addirittura la capitaneria di porto croata mi raggiunse e mi disse che c'era una chiamata urgentissima da Los Angeles. Io scesi a terra, lo chiamai e lui mi disse “Dradi: ho avuto un'idea straordinaria! I tre soprani!” La mia risposa non fu esattamente diplomatica, i Tre soprani poteva farli lui, non con me. E così fu, li fece, ma lo ricordano solo quelli che l'hanno visto, i parenti dei soprani... è finita lì.

Invece la storia dei Tre tenori non è proprio finita. Anzi, a distanza di trent'anni, all'inizio di questa quarantena, avete anche lanciato un revival on line con Luciano Ganci, Francesco Meli e Giovanni Sala.

È stata una cosa simpatica, un piccolo segno di solidarietà anche con tutti i cantanti che sono a casa. Peraltro, ne approfitto per dire una cosa. Ci sono teatri che si sono comportati in un modo e altri che si sono comportati in un altro. Ci sono teatri che hanno comunque dato un piccolo contributo ai cantanti che erano lì a provare e che non sono mai arrivati alle recite, non hanno percepito nulla, hanno speso soldi di viaggi, di alberghi. Ci sono teatri che hanno cercato e cercano di riprogrammare gli stessi titoli o comunque di richiamare gli stessi cantanti per gli anni a venire. Ci sono, invece, teatri che hanno messo un pezzo di carta con lo scotch fuori dalla porta, ci sono teatri importanti, importantissimi che stanno, sì, riprogrammando, ma ignorano completamente gli impegni presi. Cambi di dirigenze in cui era stato assicurato personalmente il recupero dei contratti dal sovrintendente uscente mentre l'entrante li ha ignorati. Ci sono casi in cui si è proprio riscontrato il massimo cinismo in questo senso e devo dire che, con tutto il rispetto, lo trovo particolarmente ignobile. Gente scritturata, che è arrivata, ha pagato il viaggio, l'appartamento, ha provato. Si tratta di ragazzi che non guadagnano cifre astronomiche, che vivono del loro lavoro e stanno pagando un prezzo troppo alto.

Non rispettare gli impegni presi e cancellati per forza maggiore, non cercare di recuperare quei contratti – dieci, quindici, non centinaia - l'ho trovato assolutamente indecente. Ma tanto ormai non credo che interessi più a nessuno la decenza, di conseguenza... pazienza. Io appartengo a una generazione in cui gli impegni, la morale avevano una forza diversa. Adesso, ormai vedo che non conta più niente...

La sua generazione ha fatto la storia dello spettacolo, e lei ne è stato un protagonista, sia come produttore sia come agente. Cosa pensa dell'evoluzione di queste due professioni?

Il lavoro dell'agente e il lavoro del produttore sono molto ben distinti. Un produttore deve avere idee. Per esempio, due anni dopo il concerto di Caracalla mi inventai un progetto che si chiamava Christmas in Vienna e che ha venduto 21 milioni di dischi. Non sono pochi. E pensi che eravamo sold out anche per la prova generale già un anno prima. Sono stato fatto cittadino onorario di Vienna proprio per la creazione di questo evento, di cui l'Hilton Plaza era uno degli sponsor e ci concedeva tre piani dell'albergo. Il concerto comprendeva anche cantanti pop: il primo anno con Domingo e Carreras ci fu Diana Ross, poi Bolton, Aznavour, Natalie Cole, Cocciante, Sarah Brightman... Io organizzavo e affittavo la sala delle bandiere del municipio di Vienna per la cena, affittavo tutte le carrozze della città per portare il pubblico, per la maggior parte giapponesi, dalle sale dei concerti a questa cena, dove c'erano anche gli artisti, ovviamente. Pensi che l'anno in cui c'erano Domingo, Pavarotti e Carreras, noi avevamo venduto talmente tanti biglietti che non c'era più nessun posto neanche per le prove generali e un signore comprò tre biglietti per la cena pur di partecipare e vedere gli artisti!

Adesso, non voglio vantarmi del mio curriculum, ma di eventi ne ho fatti moltissimi nella mia vita. Alcuni particolarmente difficili: a Sarajevo, per esempio, o a Betlemme. In quest'ultimo caso lavorai come produttore per l'opera di Zurigo, per Pereira; facemmo l'Oratorio di Natale di Bach il 24 dicembre a Betlemme e il 25 dicembre a Gerusalemme e le assicuro che se a Gerusalemme fu facilissimo, a Betlemme fu complicatissimo.

Io le posso dire una cosa: io non ho trovato nessuno che raccogliesse questo testimone. Anche tutti i collaboratori che ho avuto, ora fanno gli agenti, anche importanti, ma nessuno ha mai voluto imparare a fare il produttore, che è cosa molto diversa perché in un evento c'è il 2% di immaginazione, di invenzione, ma il 98% è sudorazione, è lavoro pesante, è lavoro duro. Invece, se fai l'agente, vai in un teatro: “Vuoi il signor Mario Rossi, tenore? Benissimo, eccolo qui!” Finita. Il tuo lavoro è finito. Aspetti che arrivino le recite, vai e prendi la commissione. Con tutto il rispetto, è un'altra cosa rispetto al produttore. In più, se hai una condotta onesta e hai dei cantanti bravi, lavori, lavoricchi ma è più facile avere una condotta disonesta, essere più disponibili al compromesso, diciamo così, per cui il lavoro dell'agente può diventare anche un lavoro abbastanza sgradevole. Invece per un produttore non c'è compromesso che tenga: ti confronti con il mercato, con il pubblico, devi creare un prodotto che funzioni. E, personalmente, posso dirmi soddisfatto: ho venduto più di cinquanta milioni di dischi, il che vuol dire che in qualche modo le cose che ho fatto hanno funzionato.

Hanno funzionato e hanno avuto un'influenza enorme...

Lei prima ha citato il concerto che abbiamo messo on line per “rinfrescare” quello dei Tre Tenori. Lei ha visto, hanno cantato sostanzialmente il programma di Caracalla: Sala ha preso le parti di Pavarotti, Ganci quelle di Carreras e Meli quelle di Domingo. Poi c'è stato questo bellissimo regalo che mi ha fatto Zubin Mehta dirigendo il “Nessun dorma” finale da Los Angeles, che è stata veramente una cosa emozionante, perché un signore della sua età, con i problemi di salute che ha avuto e sta avendo, che si mette davanti a un cellulare e si fa riprendere mentre dirige non è una cosa di tutti i giorni. È stato un gesto che abbiamo apprezzato moltissimo. E, peraltro, questo video sta avendo una grande diffusione in tutto il mondo: lo stanno prendendo televisioni brasiliane, ungheresi norvegesi, finlandesi, greche...

Con il senno di poi è facile valutare un successo, ma al momento dell'ideazione immagino che ci voglia una bella dose di coraggio, con l'intuito e la lungimiranza.

C'è un episodio che voglio racccontarle. Quando ideai Christmas in Vienna, parlai con il presidente della Sony che era Günther Breest, di Amburgo: voleva assolutamente i diritti, perché diceva che dopo essersi fatto sfuggire quelli dei Tre Tenori non voleva farsi scappare il mio prossimo progetto. Però, voleva anche l'opinione del nuovo presidente della Sony USA, “un giovane rampante molto attivo”. Così andammo a New York e fummo ricevuti da questo signore che si disse subito “contrario al 100%”. Secondo lui sarebbe stato un insuccesso perché i concerti di Natale hanno mercato solo nei pochi giorni prima della festa e dal 25 dicembre già non si vendono più; in secondo luogo si sarebbe trattato di registrare nel '92 per poi uscire un anno dopo. Era convinto, insomma, che la Sony non avrebbe recuperato l'investimento. Günther Breest ne prese atto ma non cambò idea: “io lo voglio far lo stesso e lo facciamo”.

Il primo anno vendiamo un milione e mezzo di copie. Allora, io ricevetti un fax da New York da questo signore: “Straordinario... magnifico... grande successo... fissiamo subito quello dell'anno prossimo”. Al che io risposi “Caro, io penso una cosa: io mi ricordo la tua opinione, prendo atto della cosa e prendo atto anche del fatto che uno dei due sta seduto nella sedia sbagliata ,perché o io sbaglio a fare i progetti o tu a giudicare.” Be', alla fine non dico che diventammo amici, ma rompemmo questa diffidenza e continuammo per dieci anni a lavorare insieme. Sa come si chiamava quel signore? Peter Gelb. L'attuale sovrintendente del Metropolitan.

Anche lui, poi, ha fatto una discreta carriera...

Ho visto che l'altro giorno ha fatto un concerto in streaming da Met. Sempre streaming, streaming streaming... io invece sto lavorando a un progetto che non è streaming e spero di riuscirci.

Speriamo tutti che sia presto possibile tornare in teatro.

Se usi certi accorgimenti si può già, ci sto lavorando e sono convinto si possano mettere 1.500 persone, coro e orchestra in sicurezza, dal vivo. Sa, il fatto è che oggi bisogna passare per i politici, solo loro ti possono dare i soldi e la politica non sono dei centometristi, sono tutti dei maratoneti: vanno tutti a passo lento, molto lento.

Si potrebbe continuare a parlare per ore con Mario Dradi, che con irresistibile spirito romagnolo può far rivivere aneddoti spiritosi, come quando – proprio dopo il fatidico incontro romano del 5 dicembre 1989 con Mehta e i tre tenori – uno sciopero dei taxi stava impedendo agli artisti di raggiungere l'aeroporto e si rimediò un rocambolesco passaggio in ambulanza (definito da Carreras “il viaggio più eccitante della mia vita”). Oppure può rievocare, con tutta la sua passione per l'archeologia, luoghi perduti come il tempio di Baal e il teatro romano di Palmira o Leptis Magna, dove pure ha lavorato per eventi internazionali.

Il tempo, però, è tiranno. Il passato non prevale sul presente, anzi, riappare tanto vivido quanto lo è sempre la propulsione verso il futuro. Mario Dradi è un oratore affabile e scaltro: basta sentirlo parlare pochi minuti per capire come abbia potuto ideare e realizzare progetti che hanno fatto epoca e che potrà sempre riservare qualche sorpresa.

Intanto, è venuta l'ora di pranzo e, nell'augurio reciproco di buon appetito c'è spazio per un nuovo aneddoto: sapevate che Mario Dradi è un bravo cuoco specializzato solo in patate fritte? E che in una sfida improvvisata ai fornelli in un Hotel di Dubai, di fronte a tutto il personale tecnico e artistico del Teatro Verdi di Trieste, sconfisse uno chef candidato alla gestione di tutti i ristoranti di quella catena alberghiera? Ma questa è un'altra storia...


 

 

 
 
 

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