Fake, bufale e musica
di Roberta Pedrotti
Su segnalazione di amici musicisti e curiosando un po' fra le incisioni disponibili sui canali on line, mi sono imbattuta in alcuni ascolti sorprendenti: mi pareva di riconoscere nettamente voci e interpretazioni noti e familiari, ma leggevo nomi del tutto sconosciuti (o, nel caso di una tale Elisabetta Manfredini, curiosamente omonimi di cantanti defunti da quasi due secoli). Da una breve ricerca ho scoperto che Carlo Centemeri aveva dedicato alcuni interessanti approfondimenti sul suo sito personale a questo "strano caso" (Fantasmi discografici, Qualche titolo dal catalogo RC record classic, Simone Perigini colpisce ancora). Episodi eclatanti di falsi discografici più o meno consapevoli, magari emersi nella spasmodica ricerca di indediti di questo o quell'artista, non sono certo una novità, ma nel mondo variegato dell'autopubblicazione e autopromozione on line è sembrato interessante cogliere l'occasione per riflettere su alcuni punti critici del diritto d'autore, dell'editoria, della distribuzione e recezione di opere d'arte e d'ingegno, credibilità e bufale. Naturalmente saremo felici di ospitare dibattiti, smentite o contraddittori per dar voce alle diverse parti in causa.
Qualche tempo fa fecero un certo scalpore casi come quelli dei pianisti Joyce Hatto e Maurizio Moretti, che si sarebbero attribuiti registrazioni altrui, Moretti riuscendo addirittura a farne pubblicare dalla Decca! Si trattava, però, di registrazioni di un solo strumento, forse più facili da camuffare. Quello che da anni denunci e documenti sul tuo sito ha quasi dell'incredibile: un intero nutritissimo catalogo di incisioni operistiche sistematicamente riprese da edizioni già note.
Ci vuoi raccontare un po' questa storia?
La segnalazione iniziale mi era arrivata nell’autunno del 2017 da Paolo Grazzi e dall’ensemble Zefiro: si erano accorti che, sotto un loro video su YouTube, appariva una attribuzione a una fantomatica orchestra, “I barocchisti lombardi”. In effetti, cercando in rete, era apparso un disco di questo gruppo, edito da una certa RC records, che aveva una grafica che scopiazzava i vecchi Naxos. Da lì si era aperto un gioco di scatole cinesi: questa misteriosa etichetta (solo omonima di una vera label inglese, ovviamente innocente, specializzata in musica dance) pubblicava solo incisioni di interpreti di cui era impossibile trovar traccia altrove. La situazione era veramente incredibile: una dozzina di dischi acquistabili su Amazon e disponibili sugli store online che si riferivano inequivocabilmente a nomi inesistenti: in tutta questa folla di fantasmi si continuava a ripetere – con grandi elogi e sempre in ruoli centrali – il nome di Simone Perugini. Un rapido giro di telefonate con vari colleghi della zona fiorentina mi aveva confermato che il personaggio esisteva; ascoltando i CD incriminati fu facile capire che, però, non aveva inciso niente e che tutte le registrazioni venivano da dischi già esistenti. Tuttavia, non era assolutamente certo che l’operazione fosse gestita direttamente da lui; però, il fatto che il sito dell’etichetta fosse intestato a lui (tramite il registro dei domini usciva il suo nome, cognome, indirizzo di casa, email e numero di cellulare) lasciava spazio a pochi dubbi. Pubblicai la storia sul mio sito, divenne virale sui social e venne ripresa successivamente da diverse testate, non solo specializzate.
Al di là del cominciare a creare una rete tra gli artisti involontariamente coinvolti, parallelamente, penso che il mio lavoro sia servito anche agli utenti della musica: alcuni altri incauti acquirenti si erano salvati in extremis perché – insospettiti – avevano cercato informazioni in rete e si erano imbattuti nel mio articolo. Nel frattempo sono spariti siti web et similia, ma le tracce audio sono rimaste in vendita. A inizio 2019, per curiosità, sono andato a ricontrollare la situazione e ho trovato che, con una nuova etichetta (VDC Classique), erano ricominciate le pubblicazioni. Però a questo punto era più divertente vedere fino a che punto sarebbe arrivato, e quindi l’ho tenuto monitorato per un po’ di mesi, nei quali ha pubblicato di tutto; motivo per cui, al momento di far uscire il secondo articolo, c’era parecchia carne al fuoco.
In tutta franchezza, l'ascolto comparato non lascia davvero dubbi. Se ascolto una di queste incisioni sono subito colta da una sensazione di déjà entendu. A volte si tratta di esecuzioni recenti e celeberrime, altre di prodotti un po' più di nicchia, ma pare davvero difficile credere alle proprie orecchie. Come è possibile una cosa del genere, sistematica e prolungata nel tempo? Da ingegnere e da musicista ti chiedo come non esista una prova inconfutabile scientifica di queste identità fra registrazioni “diverse”.
Esiste eccome: da ingegnere, la sovrapposizione delle forme d’onda non lascia dubbi, per quanto si giochi con la velocità (ma è sufficiente “rallentare” la traccia per poter fare il confronto) per imbrogliare i controlli automatici in rete. La musica classica, anche quando si considerano brani suonati e risuonati, è fatta di piccoli dettagli timbrici, dinamici e agogici che rendono praticamente inconfondibile un’esecuzione. Ovviamente, mascherare la cosa “bene” sarebbe possibile: basterebbe giocare con la velocità in modo discontinuo, ossia non ritoccare uniformemente un intero movimento, ma intervenire in modo diverso nelle varie sezioni: in quel modo la matassa diventerebbe ben più complessa da dipanare. Però, da musicista, posso dirti che basta ascoltare alcuni elementi, come il basso continuo nei recitativi: veramente difficile che ne esistano due identici, come realizzazione e come esecuzione. E poi, come giustamente dicevi tu, i timbri delle voci (ma anche il fatto che "lo stesso" fantomatico cantante abbia voci diverse in produzioni diverse, che magari distano solo poche settimane). E infine il fatto che in produzioni svolte a pochi mesi di distanza la stessa compagine dichiarata suoni come un’orchestra italiana degli anni cinquanta o come un’orchestra olandese degli anni duemila (e questo, sia in termini di presa di suono, sia di strumenti, sia di prassi esecutiva).
Ogni denuncia dà spazio a un contraddittorio e naturalmente anch'io sarei curiosa di sentire la campana di Perugini. Ha mai risposto in qualche modo alle accuse, finora?
Non con me. So che conoscenze comuni l’hanno interpellato: tuttavia, di solito, la reazione è bloccare tali contatti sui social e sul telefono e simultaneamente ignorare la cosa. Per quanto escano dozzine di comunicati stampa per autopromuovere ogni sua pubblicazione, mai una riga è stata spesa per difendere la propria posizione: qualche ora dopo che l’ultimo “catalogo” era stato sbugiardato in rete le pagine web e social legate ai profili fasulli in gioco erano semplicemente state oscurate, ma i titoli sono rimasti in vendita. Io, giusto per sicurezza (o per collezionismo estremo?), ho acquistato qualche copia “fisica” su Amazon in modo da usarle per eventuali contenziosi, tuttavia qualsiasi sito di streaming o qualsiasi negozio digitale è ampiamente pieno di queste registrazioni fasulle. So che anche l’università di Firenze – di cui si definisce “fellow” – lo aveva “caldamente invitato” a evitare di attribuirsi ruoli che non gli spettavano (visto che non è un collaboratore di tale università, per quanto abbia sparso questa informazioni).
Naturalmente anche noi siamo ben disponibili ad accogliere smentite e contraddittori. Per quel che ho ascoltato e quanto racconti, non ci si può che domandare: "cui prodest?" Mi verrebbe quasi da pensare a uno scherzo, a una provocazione sulla riproducibilità dell'arte on line... ma, se così fosse, forse le cose si sarebbero già concluse.
Mi permetto di fare qualche congettura: in primo luogo, una nutrita discografia può valere da titolo artistico, specie se presentato a chi lo valuta un tot al chilo: recentemente leggevo, in una discussione su Facebook, un docente di conservatorio che esaltava il fatto che l’accesso a una docenza in conservatorio fosse possibile solo per persone che potessero vantare un’attività artistica: una ricca discografia potrebbe essere valutata come attività artistica? Molto probabilmente si, e ci potrebbero essere certo canali che potrebbero assegnare a chi si attribuisce in questo modo registrazioni altrui un punteggio maggiore rispetto – paradossalmente – a Sergiu Celibidache o a Carlos Kleiber, che usarono la discografia in modo molto parsimonioso. In secondo luogo, un’ampia presenza sul web può far da referenza, visto che oggi quando si entra in contatto con un nome che non si conosce la prima cosa che si fa è cercarlo in rete.
Un’ulteriore riflessione mi viene dalla reazione che c’è ogni volta che una registrazione viene tirata fuori: si taglia fuori il contatto ma non si cerca neanche di difendersi. Evidentemente i vantaggi non sono inficiati tanto da dover prendere una posizione in difesa.
Ricordo che anni fa (quasi trenta, temo) Il Venerdì di Repubblica indisse un concorso di narrativa e che la regia presieduta da Giuseppe Pontiggia premiò con particolari lodi un racconto che mi fece sussultare: riconobbi subito il soggetto di una fiaba di Gianni Rodari! Non fui l'unica, per fortuna, e il premio fu ritirato con mille scuse. È così facile spacciare per proprio il lavoro altrui?
Ti rigiro la domanda: se la fiaba non fosse stata di Gianni Rodari ma di uno scrittore che tu non avevi letto, come avresti fatto ad accorgertene? (Mi viene in mente la serie Boris e gli sceneggiatori che scopiazzavano una telenovela coreana). Anche in questo caso, se non ci fosse stata una miccia che innescava la ricerca, tutto sarebbe ancora sotto silenzio. Tuttavia – e per fortuna – casi del genere sono isolati, anche perché le etichette serie seguono tutto l’iter produttivo, visto che poi ci devono mettere la faccia. In ogni caso, se ricordi, non molti anni fa ci fu in Italia il caso Gaccetta, l’ex prodigio del violino di prima della guerra poi divenuto falegname per necessità, “ritrovato” a Genova a fine novecento: al di là della sua biografia, delle sue testimonianze e dei suoi coinvolgimenti in ambito didattico – che ebbero molto riscontro – apparvero sul mercato alcune registrazioni che Gaccetta avrebbe fatto negli anni 30 nel retro di un negozio. tuttavia il violinista Massimo Coco (e non solo lui) le riconobbe poi come un’incisione della violinista rumena Cornelia Vasile (pubblicate nientemeno che dalla Deutsche Grammophone a inizio anni settanta). Anche in questo caso, se si sia trattato di uno scambio di nastri in duplicazione o di un imbroglio deliberato non è detto né dimostrabile, ma la sovrapposizione dei nastri Gaccetta/Vasile lascia poco all’immaginazione, per quanto in molti (spesso coinvolti nella questione) sostengano a tutt’oggi che registrazioni, suono, tecniche e fraseggi siano “completamente diversi”.
Legalmente, cosa si può fare?
Nel caso in cui si copi una registrazione e la si rivenda (alterata o meno) autonomamente, oltretutto sotto diversi nomi, si parla a tutti gli effetti di un furto, ai danni del proprietario del master. Da diverso tempo a questa parte, una pubblicazione discografica prevede la cessione del master all’etichetta, che ne diviene proprietaria. È quindi quest’ultima che dovrebbe andare in uno dei punti di distribuzione (amazon, spotify) e chiedere “A chi vanno i proventi della vendita di queste cose?”. Ovviamente, le etichette che sono state colpite sono state informate (già anni fa) ma non ho saputo di procedimenti in corso (ahimè spesso la cosa è stata derubricata in stile “i soliti italiani”). I musicisti, di solito, non percepiscono nulla a fronte delle vendite discografiche (se non i diritti connessi), e quindi non possono fare cause o procedimenti legali.
Questo che hai analizzato è la punta di un iceberg o un caso isolato? Al di là dei diretti interessati che vedono il proprio lavoro attribuito ad altri, quali problemi può creare al mercato discografico questa sorta di terra di nessuno on line?
Nella sua assurdità sembra essere, fortunatamente, un caso isolato: tuttavia il rischio di emulazione è concreto. Purtroppo questo è un elemento collaterale dell’autopubblicazione, che, se realizzata in un certo modo, ribalta i ruoli: il cliente non è più l’acquirente ma l’autore. Quindi, qualsiasi cosa può essere messa in commercio perché non importa se qualcuno la comprerà (anzi, non è neanche detto) ma solo che sia in vendita (tanto, non serve neanche investire in una tiratura, né nell’artwork, né nell’editing, né nella promozione). Questo potrebbe anche essere innocuo, se non fosse che questi titoli arrivano anche sul mercato digitale “standard” dove si confondono con i titoli reali che non sono solo ebook, ma anche print-on-demand. E qui si aprono tre possibilità. La prima è quella degli autori di testi davvero rivoluzionari scartati per miopia, caso non impossibile (per quanto improbabile) che tipicamente poi conduce a una pubblicazione più seria. La seconda riguarda i prodotti della folla di "geni incompresi" convinti di far parte della prima categoria poiché boicottati dalla cricca dell’editoria. La terza è ovviamente quella dei disonesti che hanno individuato un varco non presidiato. Questo fenomeno esisteva anche con la carta stampata (Umberto Eco aveva analizzato la cosa in un magnifico articolo del 1970) ma Internet ha aggiunto un ulteriore passaggio, permettendo finalmente di avere negozi che vendono l’autopubblicazione accanto agli editori reali. In ambito musicale, basterebbe pensare ai testi di Bianchini e Trombetta, che tramite questi canali vengono venduti a legioni di sprovveduti (devo ancora capire se consciamente o inconsciamente) che non si accorgono di leggere dimostrazioni inconsistenti ma totalmente finalizzate a tesi preconcette. Il mercato editoriale tuttavia è – secondo me – più al sicuro rispetto a quello discografico: dato che il danno potenziale dipende essenzialmente dalla capacità di discernere dell’utente (la cultura aiuta anche a difendersi dalle fregature) questo è più semplice da valutare su un libro stampato che su di una registrazione che magari si ascolta in streaming.
Un consiglio per i musicisti, ma anche per gli appassionati che magari rischiano di acquistare un prodotto fasullo, per difendersi da queste situazioni?
I musicisti possono far ben poco, a parte ovviamente far circolare queste informazioni tra i colleghi e gli addetti ai lavori: tuttavia sarebbe utile che facessero pressione sugli aventi diritto perché intervengano nelle sedi adeguate. Per quanto riguarda gli appassionati, io rimango dell’idea che l’endorsement dato da un marchio rilevante sia comunque determinante: implica un processo di selezione e una assunzione di rischio che porta alla pubblicazione sotto un marchio importante. Tuttavia, servirebbe selezione e attenzione anche da parte di chi vende (quale negozio avrebbe messo in assortimento un intero catalogo “uscito dal nulla”?). Sarò un nostalgico, ma penso che molta della “morte” dell’ascolto musicale sia non solo un fatto culturale ma anche un fatto sociale: una certa atarassia che non ci fa provare grandi emozioni su nuove produzioni che lo meriterebbero, altrettanto, non ci fa arrabbiare quando ci imbattiamo in qualcosa di fatto male (se non addirittura di truffaldino), forse perché abbiamo un comodo rifugio nel passato. Se ci convincessimo tutti che la sopravvivenza della musica passa anche dalle nostre mani, faremmo del bene, a noi e alla cultura.