L’opera in breve
Emilio Sala
L’importanza della Literaturoper nel panorama dell’opera novecentesca, dal Pelléas et Mélisande in poi, è stata ribadita da vari studiosi, tra i quali, autorevolmente, Carl Dahlhaus. Comporre un’opera a partire da un testo drammatico preesistente, senza alcuna mediazione o riduzione librettistica, ammettendo l’accorciamento come unico intervento possibile, è un costume che venne ben presto introdotto anche in Italia, naturalmente sotto il segno del più influente drammaturgo e poeta d’inizio secolo: Gabriele d’Annunzio.
Francesca da Rimini di Zandonai (1914) e Fedra di Pizzetti (1915) sono i due titoli che diedero il via al fenomeno. A dire il vero, solo il secondo dovrebbe essere considerato una Literaturoper in senso stretto, dato il suo rispetto per il testo preesistente, che venne appena ritoccato dallo stesso d’Annunzio. Il primo, oltre a prevedere tagli molto consistenti, utilizza un testo che venne rielaborato, anche con l’aggiunta di alcuni versi, a cura di Tito Ricordi; resta però il fatto che anche in quest’ultimo caso si tratta di un aggiustamento che non ha più nulla a che vedere con le pratiche di riduzione librettistica del passato. Un altro compositore che realizzò un interessante progetto di Literaturoper è Umberto Giordano, la cui Cena delle beffe andò in scena alla Scala il 20 dicembre 1924 (poche settimane dopo la morte di Puccini). La cena delle beffe è un poema drammatico in quattro atti, che Sem Benelli fece rappresentare per la prima volta nel 1909 e che ebbe un grande successo come testo teatrale prima di diventare un film di Alessandro Blasetti (1942) con Amedeo Nazzari (Neri) e Clara Calamai (Ginevra). Nonostante le numerose stroncature della critica (Giovanni Papini arrivò a definire Sem Benelli “una ciabatta smessa di Gabriele d’Annunzio”), La cena delle beffe ha attirato una schiera di grandi attori, da Sarah Bernhardt (che interpretò Giannetto en travesti) a Carmelo Bene (che adattò il dramma ben due volte, nel 1974 e nel 1989).
Uno degli aspetti più notevoli (soprattutto dal punto di vista musicale) del testo benelliano è il suo modo di utilizzare endecasillabi sciolti di carattere alquanto prosaico (come scrisse Silvio D’Amico, quella della Cena non è altro che “prosa dove si va a capo ogni undici sillabe”) e dunque antidannunziani, oltre che perfettamente adatti ad andare incontro alle esigenze di disgregazione della sintassi melodica tradizionale sottese alla natura stessa della Literaturoper. Comunque sia, pur avendo potuto giovarsi (come Pizzetti) della collaborazione dello stesso autore del testo, anche Giordano (come Zandonai) riaggiustò l’originale con interventi abbastanza vistosi. Dei milleottocentoventisei endecasillabi composti da Benelli ne sopravvissero meno della metà, e sono pure tutt’altro che rari i versi più corti, a mo’ di spezzoni residuali sopravvissuti all’azione dei tagli. Ma ciò che più conta è l’aggiunta di diciassette versi per la scena in cui la lussuriosa Ginevra dichiara la sua attrazione per Giannetto (“L’amore si alimenta di stupore”, Atto II). Non a caso questo passo conterrà uno dei motivi ricorrenti più importanti dell’opera. La necessità di espandere la sensualità struggente di questo punto di scena appare anche in una lettera che Giordano inviò a Benelli in data 30 maggio1923: “Non posso farlo [l’Atto II] se tu non mi mandi quei dieci-dodici versi di cui ti pregai. La musica che comporrò su questi nuovi versi dovrà essere calda e sensuale; mi servirà in parecchi punti del finale”. Ma nonostante questa espansione per certi versi lirica, siamo lontanissimi dal clima musicale di un’opera ancora ottocentesca come Andrea Chénier. Un altro aspetto notevole della drammaturgia benelliana, infatti, è il cinismo metateatrale, spesso straniante e corrosivo, che sembra talvolta anticipare il Pirandello dell’Enrico IV. Il gioco tra finta e vera follia, l’assenza di personaggi positivi, la morbosità del rapporto tra Neri e Giannetto, il finale anticatartico: sono tutti elementi “novecentisti” che il “verista” Giordano ha in parte ripreso dal Gianni Schicchi, ma sviluppandoli poi in senso tragico. Ripensare il verismo non in opposizione al modernismo, ma cercando di metterlo in relazione con esso (come è già stato fatto con Puccini) significherebbe rimescolare non poco le carte della storia dell’opera italiana dalla Giovane Scuola alla Generazione dell’Ottanta. In questo contesto ancora incerto e iniziale, La cena delle beffe appare di sicuro come uno dei titoli meno eludibili, anzi fondamentali.
Dal programma di sala La cena delle beffe - 3 aprile 2016