Note di regia
ROBERTO CATALANO
Attraversando il libretto di Felice Romani, ci si imbatte di continuo in situazioni che sono espressione di un desiderio spinto ai limiti della necessità di acquistare qualcosa che ancora non si possiede.
Infatti, constatazioni quali “non si dà follia maggiore dell’amare un solo oggetto” o frasi come “se Fiorilla di vender bramate io la compro” e ancora “cento donne intorno avete; le comprate e le vendete” o “io non vendo mia moglie a persona […], io mia moglie l’ho presa per me”, ricorrono sparse lungo tutta la narrazione.
Proprio Fiorilla, il personaggio che nell’opera sembra non accontentarsi di ciò che ha, è colei che desidera tutto ciò che sa essere desiderabile per gli altri.
Ciò che la orienta verso l’oggetto desiderato non è scaturito da una volontà autentica, da un movimento interiore, tanto che lei stessa a un certo punto ammette di non essere davvero interessata al turco e, facendo riferimento ai sentimenti di Zaida per Selim, ci dice: “abbia il suo turco, poiché io non lo voglio”.
Se la domanda di un certo bene cresce e quel bene diventa raro, Fiorilla lo rincorre.
Perché lei, che non sa cosa vuole, certamente sa di volere ciò che gli altri non hanno.
Vittima di un processo di accumulo che la fa muovere curiosa e vorace, Fiorilla non compie mai adulterio ma ci si dirige contro, per necessità di libertà, per divertimento, per slancio vitale verso una vita che lei desidera stimolante e sempre nuova.
In lei risiede la morale dell’opera che, coerentemente con lo spirito del tempo, prevede che gli uomini la “aggiustino” correggendone la traiettoria e riportandola al ruolo di moglie fedele.
La necessità, per chi scrive, è stata quella di intercettare nel suo ruolo il tratto universale di un’umanità vittima di stimoli costanti, per cercare di dare al suo personaggio non l’accezione dell’essere umano “guasto” che va aggiustato, ma quella di una vittima perfetta, sulla cui fragilità è possibile lucrare.
In questa storia l’amore si vende e si compra esattamente come il vino e il caffè e gli esseri umani, proprio come accade alle cose, si vendono e si comprano a vicenda.
Una serie di umani-prodotti che vivono in un mondo dove la pubblicità è talmente diffusa e infiltrata nel quotidiano da rendere equivoca la distinzione tra realtà e sogno, con la mente costantemente offuscata dalla potente e rassicurante luce di spot confezionati come promesse di futuro e felicità.
E Fiorilla, per i tratti delineati, è dunque la vittima perfetta di questo sistema.
Colei su cui la macchina della creazione del desiderio è sempre efficace e la induce a comprare tutto quello che le si vende, in questo mercato di sentimenti dove non ci sono più linee di confine fra oggetti e persone. Lo sono anche Geronio e Narciso, dipendenti anche loro dall’impossibilità di rinunciare a tutto quello che a loro si offre.
Ciò che in questo mondo i personaggi provano, è “un abito indossato”, un prodotto da consumare; nessuno, a parte Zaida e il suo sincero amore per Selim, prova autenticamente qualcosa. Lei che, insieme ad Albazar, si è infiltrata nell’ingranaggio deputato alla promozione e vendita di tutto ciò che in questa storia viene desiderato, usato e in fretta dimenticato.
Ma Fiorilla è anche colei che in prossimità della fine dell’opera, rifiutata per gioco dal marito, vivrà una rivelazione, un risveglio che la indurrà di colpo a rinunciare e a disfarsi di tutto ciò che per una vita intera ha accumulato: “Vani ornamenti, che fate meco omai! Itene tutti, itene sparsi a terra; io vi calpesto, cagioni de miei falli, e vi detesto”.
È di fatto una liberazione, pagata al prezzo della rivelazione del vuoto che porta dentro.
Un autentico ritorno a se stessa, a quello che forse è davvero: nello spazio che trabocca di oggetti desiderati ormai morenti, c’è una scintilla di vita.