Note di regia di Frédéric Roels
Ci sono molte versioni de “I racconti di Hoffmann”, essendo l’opera rimasta incompiuta alla morte di Offenbach. Quale versione ha scelto?
« La mia scelta è molto semplice, resterò fedele all’edizione del 1907 pubblicata dalla Casa Choudens. Questa versione ha dimostrato la sua efficacia drammatica ed è fedele allo spirito di Offenbach, anche se contiene alcuni elementi apocrifi (l’aria “Scintille, diamant”, il meraviglioso settetto alla fine dell’atto di Giulietta). Si tratta di un punto di riferimento essendo la versione più spesso utilizzata e io sarò rispettoso di questa tradizione. Ma noi sappiamo anche che al momento della creazione dell’opera nel 1881 all’Opéra Comique di Parigi, come era abitudine, i testi tra le arie venivano declamati e non cantati. Più tardi, alla sua ripresa a Vienna, come era successo qualche anno prima per “Carmen”, questi testi sono diventati dei recitativi cantati. Tornerò allo spirito “Opera Comique” come avevo già fatto per “Carmen” nel 2012 e i testi saranno declamati e non cantati».
Da dove provengono I racconti di Hoffmann?
«Hoffmann è nella realtà uno scrittore del XIX secolo, è anche uno degli inventori, e di che talento, del genere fantastico. Questo Hoffmann reale diventa il personaggio principale dell’opera di Offenbach. Ma egli incarna anche l’ideatore, l’autore, il filo conduttore, il manipolatore e la vittima degli intrecci che si susseguono».
Ha appena ricordato l’ispirazione fantastica dell’opera, come l’affronterà?
«L’opera fu composta in un’epoca incredibilmente fantastica, specialmente grazie, o a causa, delle formidabili invenzioni di quel tempo che ha visto emergere rivoluzioni inimmaginabili: il treno, il cinema, l’automobile, la lampadina. ... Queste invenzioni sconvolgono la vita quotidiana e modificano seriamente l’idea stessa di spettacolo, di rappresentazione. Ora bisognerà contare su una illusione invadente che costringe lo sguardo e deforma la realtà facendoci prendere lucciole per lanterne (magiche, per giunta). Il celebre mago Robert-Houdin spinge i confini tra la realtà e la sua percezione mentre dal canto suo Georges Méliès inventa gli effetti speciali e quasi ipnotizza gli spettatori. Questa nozione di ipnosi si sviluppa d’altronde nella clinica del Dottor Charcot che frequenta un certo Sigmund Freud laureatosi nel 1881, l’anno della creazione dei “Racconti di Hoffmann” a Parigi. Cerco di rendere tutta questa dimensione fantastica, già molto presente nel testo, attraverso un ambiente che gioca costantemente sull’illusione, che pone il gioco nell’abisso. Si troveranno anche degli accessori un po’paurosi, come bicchieri pieni di una bevanda verdastra e fumante, tra assenzio e fuochi fatui».
L’opera è talvolta considerata complessa o sconnessa, come ha superato questa difficoltà?
«L’opera è complessa perché era incompiuta alla morte del compositore, e ne risulta un senso di insoddisfazione. L’unità si basa su una vera continuità di carattere da un personaggio all’altro. Niklausse è al tempo stesso il sosia e il riflesso di Hoffmann. Olympia, Antonia, Giulietta, Stella sono una donna sola, ma in momenti diversi della vita.
Anche se fragile, il filo conduttore dell’opera è questa chiave che Hoffmann e Lindorf si disputano e che aprirà il camerino, e dunque il cuore (che collegamento!) di Stella. Ho deciso di mantenere questa chiave durante tutto lo spettacolo come un oggetto intriso al tempo stesso di simboli e di desideri. Ben prima della fine della storia, questa chiave aprirà delle vere scatole che fanno parte della scenografia e rappresentano direttamente degli spazi di vita (o di sogno o di fantasie) e indirettamente di livelli di coscienza e di sviluppo di sentimenti».
Cosa vede in comune tra le tre storie?
«I tre intrecci con le tre donne rappresentano per me tre età dell’amore. Con Olympia la storia comincia con un colpo di un fulmine, è l’amore folgorante, luminoso e necessariamente effimero. Con Giulietta arriva l’amore fisico intenso, la sensualità, l’erotismo, la sessualità; è forte, devastante e tragico. Antonia rappresenta la terza e ultima fase, l’amore pienamente sbocciato, stabile, potente e lento. Ma è anche l’ultimo, quello dell’età matura e quindi la morte non è lontana.
È la morte al centro della struttura drammatica dei “Racconti”?
«Tutte le storie contenute ne “I racconti di Hoffmann” terminano nella morte. Ma la morte è già ovunque presente, anche prima di ogni epilogo. Essa si manifesta attraverso la “non-vita” di personaggi à metà strada tra bambole e robot, attraverso la precedente morte della madre di Antonia, che appare e canta dalla tomba, attraverso gli incantesimi fatali del Dottor Miracle. In questa illusione permanente, in cui ogni personaggio è il sosia di un altro, dove l’ebbrezza conduce a uno stato comatoso, la morte è ovunque in agguato. Questa illusione permanente, questo gioco onnipresente, queste riflessioni che vanno e vengono possono ben far pensare a Corneille, ma questa volta direi che si tratta di una “tragica illusione.” Infine, non dimentichiamo che la morte ha colpito Jacques Offenbach prima che potesse completare la composizione di quella che sarà, alla fine, la sua prima opera».
La Morte o il Sogno o il Coma; personaggi costantemente specchi o riflessi l’uno dell’altro, come orientarsi?
«Penso che non sia così necessario orientarsi. E’ bene che una parte del mistero permanga e che uno squilibrio costante ci conduca e privilegi le sensazioni alla ragione. Ma piuttosto che svelare ancora lo spettacolo, lascerò parlare Paul Verlaine, un contemporaneo di Offenbach, in una delle sue poesie più belle.
Faccio spesso questo sogno strano e penetrante / di una donna sconosciuta, e che io amo, e che mi ama, / E che non è, ogni volta, né del tutto la stessa / Né del tutto un’altra, e mi ama e mi capisce».