Alla vita è sempre ugual
di Roberta Pedrotti
Ultima tappa per il Don Giovanni con la regia di Graham Vick e i cantanti del concorso AsLiCo. Lo spettacolo a ogni nuova visione si conferma straordinaria lezione di teatro in musica, ricchissimo nella semplicità di una scena essenziale, con spazi gestiti alla perfezione e una recitazione rifinita con cura maniacale da un autentico maestro. Continua a non funzionare la bacchetta di Gomez-Rios, così come non convincono del tutti i cantanti ascoltati in quest'occasione.
Leggi la recensione della recita di Brescia con l'altra compagnia di canto
REGGIO EMILIA, 11 dicembre 2014 - Il Don Giovanni prodotto dall'AsLiCo con la regia di Graham Vick ha concluso a Reggio Emilia il suo viaggio che dagli abituali lidi lombardi ha lambito anche le terre marchigiane e, infine, emiliane, con una ripresa televisiva per la RAI, che trasmetterà l'opera si spera già nelle prossime settimane. Confidiamo nella sensibilità di chi realizzerà il filmato per rendere almeno in parte la carica teatrale straordinaria di uno spettacolo che conferma la statura di uno dei più grandi registi dei nostri giorni.
Cosa fa Graham Vick? Nulla di straordinario, a ben pensarci, ma straordinario è come lo fa. Legge il testo senza condizionamenti, pregiudizi, sovrastrutture, lo scandaglia, lo approfondisce, lo realizza con una proprietà tecnica impressionante, con una fluidità di tempi e tempi e spazi, con una naturalezza di recitazione di ogni singolo elemento – cantante solista, corista, figurante, strumentista – risultato della più minuziosa preparazione. Soprattutto lo realizza, in collaborazione con il mai abbastanza lodato coreografo Ron Howell, con una sensibilità rara per il senso della musica, per le strutture della partitura, per i giochi semantici continui ed evidenti fra compositore e librettista. Non gli importa, è chiaro, di dire qualcosa di nuovo a tutti i costi, non si cura più di tanto dell'originalità o della citazione, si interessa solo al Don Giovanni così come ne scrissero Mozart e da Ponte, rende giustizia al loro lavoro trattandolo con l'amore e il rispetto che traspaiono dal legame indissolubile fra tutto quel che avviene sulla scena e tutto ciò che intendiamo fra note e parole. Non considera il mito romantico, le riflessioni accumulatesi intorno al Dissoluto punito in oltre duecento anni (se si considera solo quest'opera e non tutta la letteratura sul Burlador, naturalmente) tenendo fede al suo principio: l'opera vive di fronte a un pubblico che non è e non può essere più quello del 1791. Un pubblico che è calato in un altro tempo, in un'altra società, ma che può entrare in sintonia con un testo universale ed eterno come questo, che può sentirlo sempre attuale e vicino. Non importa, l'epoca in cui collochiamo Don Giovanni, egli è parte della nostra cultura, ma proprio per questo non deve essere addomesticato, non se ne può fare un damerino irridente che, sì, uccide in duello un vecchio, ma alla fine viene trascinato all'inferno giusto dopo aver banchettato con una coscia di fagiano e un bicchiere di Marzemino di troppo. Vick non lo addomestica, ma non cerca nemmeno lo scandalo fine a se stesso, rimanendo fedele a un testo che parla di “eccessi sì enormi”, che deve turbare e mostrare anche l'ipocrisia di chi condanna il libertino, nobili e popolani non migliori di lui, in fondo. E, dunque, stiamo parlando di abusi di potere, di sesso cercato e celato, di stordimenti (“Fin c'han dal vino calda la testa...”), di menzogne e ipocrisie sempre attuali, sempre vicine a noi, di un testo perfetto che non ha tempo, ma può vivere, camaleontico, in ogni tempo del nostro Occidente moderno, con la sua moralità e le sue mutevoli ma inamovibili classi sociali. Don Giovanni, ci piaccia o meno, è qui, ora, fra noi, fa parte della nostra civiltà e non è destinato a scendere in un inferno di cartapesta, ma a prender posto al di qua del palcoscenico, nell'inferno quotidiano che si è specchiato sulla scena. Una scena che, da che la commedia (e Don Giovanni, checché se ne dica, come commedia nasce) esiste, “alla vita è sempre ugual”.
Per questo non può darsi maggior rispetto e miglior omaggio al genio di Mozart della sua rappresentazione attraverso la maestria teatrale di Graham Vick, attraverso la sua capacità di raccontare, di gestire i ritmi e i registri espressivi, di creare la tensione con un nulla, di far tornare tutti i conti senza lasciare alcun dettaglio, anche il minimo al caso (Zerlina nel finale primo è legata con lo stesso nastro adesivo che opprime il grande manichino femminile nella cena fatale, per fare un solo esempio).
Il vero torto a Mozart non passa dunque assolutamente attraverso la vista (anzi!), bensì attraverso l'udito. Se è lodevolissimo permettere a dei giovani di lavorare con un gigante del teatro come Vick, sarebbe altrettanto auspicabile affidarli alla guida musicale di un concertatore quantomeno professionale. José Louis Gomez-Rios non è, almeno al momento attuale, in grado di dirigere un'opera come Don Giovanni e si lamenterebbe la lettura insipida e confusa se non vi fossero ben altri problemi di equilibri, coesione, articolazione. Problemi basilari che certo rendono non facile l'espressione a un cast non proprio felicissimo alle prese con una partitura di questa complessità.
Se, per esempio, Ekaterina Gaidaskaja, Donna Anna, vorrà proseguire sulla strada del canto, sarà opportuna una profonda revisione del suo metodo, in particolare della gestione del fiato, che – data la figura imponente da autentica valchiria e la conseguente capacità polmonare – non le manca in termini di tenuta, ma non è controllato in modo tale da sostenere correttamente il suono nell'intonazione, nel legato, nella coloratura e in tutta l'estensione. Il ruolo di Donna Elvira è forse un po' grave per Mariateresa Leva, che sfoga in un acuto cui mancano ancora la tornitura e il controllo auspicabili. Alessandra Contaldo deve fare attenzione alla presenza di aria nella voce e alla difficoltà nel legare i suoni, ma le si suggerisce anche di correggere i recitativi, che, nonostante le cure maniacali del regista, risultano ancora inficiati da un tono pettegolo decisamente datato.
Dionysios Sourbis costruisce con Vick un Don Giovanni leggermente diverso da quello carnale e irruente di Myshketa ascoltato a Brescia: è più un perverso bellimbusto un po' dandy un po' American Psyco, un vip affascinante dai terribili vizi nascosti. La voce pare più acerba dei suoi trentasei anni, senza particolari doti nelle mezzevoci o nell'incisività di “Fin c'han dal vino”, ma il colore chiaro e la facilità in alto, uniti al garbo complessivo e nonostante un certo vibrato, ben s'addicono al personaggio. Denota esperienza anche Leonardo Galeazzi, che se non avrà la natura schietta di basso (né di baritono) ideale per Leporello, ha comunque una teatralità e una sicurezza che garantiscono un esito convincente, coronato da copiosi applausi finali.
Sicuramente, invece, il tenore Matteo Mezzaro ha ancora molto da studiare per mettere a frutto e dominare i propri mezzi, soprattutto di fronte ai passaggi di coloratura di “Il mio tesoro intanto”, mentre Davide Giangregorio, tentato da troppe emissioni parlanti, è un Masetto piuttosto incolore. Meglio il robusto Commendatore di Cristian Saitta.
Il coro non ha molto da cantare, ma ribadisce una prova di completezza teatrale musicale e tersicorea davvero eccellente.
Alla fine è un successo, ben meritato per il complesso dello spettacolo, anche se fin troppo generoso per il versante musicale. Nel corso dell'opera si deve registrare qualche isolato malumore, ma si sa che desidera farsi notare chi non ama vedere a teatro qualcosa di diverso da quanto aveva immaginato o era abituato a vedere da sempre, chi si preoccupa che recitare – nel teatro in musica! – guasti l'ascolto, o ritiene che Mozart si identifichi con figurine rococò e non con contenuti più profondi. Ogni arte autentica incontra opposizioni, ma non è affatto detto che una voce singola sia quella della maggioranza. Attorno a noi, anche fra spettatori di lungo corso, non abbiamo inteso commenti scandalizzati, se non per qualche prova vocale.
foto A. Anceschi