Fidelio e il testo oltre lo scritto
di Francesco Lora
Il Teatro alla Scala inaugura la nuova stagione con il capolavoro operistico di Beethoven. La lettura musicale e quella registica condividono l’indirizzo di tragico realismo, con un Barenboim ispirato e pensoso da una parte e dall’altra una Warner fedele alla didascalia. La compagnia di canto non è sempre adeguata all’importanza del teatro e all’occasione inaugurale.
MILANO, 20 dicembre 2014 – A chi scrive è rimasto impresso nella mente un pensiero di Daniel Barenboim: sette anni fa, a proposito di Tristan und Isolde e di tutto il teatro d’opera e di ogni partitura, egli ricordava che l’interpretazione deve essere fedeltà assoluta al testo, ma che quest’ultimo non consiste nella sola letteralità poetica e musicale: agli orecchi di un filologo di professione, questo dà non poco argomento sul quale riflettere. Un passaggio dalla parola ai fatti lo si è còlto nel Fidelio inaugurale della nuova stagione del Teatro alla Scala. Un fazzoletto gettato distrattamente sul leggio evidenzia l’assenza della partitura aperta: il direttore attacca a dirigere a memoria, non solo leggendo dalla propria mente il testo lì ben fissato, ma anche restituendolo con quelle ombre, quegli indugi, quei fremiti, quella imprevedibile mobilità agogica e quelle introversioni drammatiche che nella sua mente sono stati portati a frutto, tra conoscenza della tradizione e meditazione personale, e che mai potrebbero essere prescritti da un segno sulla carta. È il Barenboim pianista, ispirato e pensoso, che sotto le sue mani imprevedibili trova, con la stessa docilità, l’orchestra e il coro milanesi. Alla vigilia del congedo dalla Scala nel ruolo di direttore musicale – e a differenza di quanto ascoltato nel Simon Boccanegra del mese scorso – questo suo Fidelio è finalmente uno spettacolo amato e illuminante, al quale potranno con diritto agganciarsi i rimpianti dell’addio.
Secondo previsione, a Barenboim non tutto interessa egualmente in quest’opera eclettica di situazioni e caratteri. Ciò che attiene all’esile trama parallela costruita intorno ai rapporti tra Leonore, Rocco, Marzelline e Jaquino, ossia alla commediola borghese, riceve da lui una lettura esatta ma non partecipe, come se la sua bacchetta affigesse una taccia morale a chi insegue i capricci domestici sul limitare di un carcere ove si consuma l’ingiustizia. Al contrario, tutta l’anima del direttore si riversa nell’esemplare trama principale costruita intorno ai rapporti tra Leonore, Florestan, Don Pizarro e Rocco, ossia alla tragedia e a una storia di riscatto del senso di umanità attraverso un’eroina: i tempi dilatati, i lunghi silenzi, gli echeggi del corno che, nell’introduzione all’atto II, si estendono a piacere fino a urtare l’orecchio, sono tutti indizi di un’adesione profonda e particolare al testo beethoveniano. Ed è in nome di questa adesione che si giustifica la sostituzione dell’ouverture canonica dell’opera (1814: aria di bicentenario) con quella attinta dalla primissima versione (la Leonore del 1805): essa anticipa in forma più asciutta e concisa la Leonore n. 3 (1806) e, come un poema sinfonico, percorre i luoghi tragici dell’opera fino allo scioglimento conclusivo.
In modo curioso, l’atmosfera opprimente dura fin nel coro finale, che Barenboim realizza con chiassosa grevità anziché accoglierne la grata festosità. Questo si appaia tuttavia con il lato visivo dello spettacolo, firmato da Deborah Warner nella regìa, da Chloe Obolensky nelle scene e nei costumi e da Jean Kalman nelle luci. Si vede lo squallore di un immaginario carcere contemporaneo, nel quale il detenuto è privato d’ogni dignità umana; accanto a lui, i lavoratori del carcere vivono gli abusi commessi come ovvio passatempo, curandosi solo di sé stessi e sospendendo la morale della comunità civile; nel finale, la liberazione di Florestan pare più atto di propaganda politica a favore del deus ex machina Don Fernando che un riscuotersi dell’essere umano dall’aberrazione: mancano solo le telecamere in scena per darci sicurezza di questa interpretazione. Lontana dal tenero pudore inscenato nel precedente Fidelio scaligero di Werner Herzog (2000), questa è dunque una visione di duro e cinico realismo, tanto più efficace poiché non calca la mano oltre il dovuto: il messaggio chiaro non necessita di formulazioni estreme. Si tratta anzi di un lavoro registico fedele alla didascalia, al di là dell’innocua trasposizione temporale ai nostri giorni; si sorride, piuttosto, quando lo spettatore che sa tutto punta il dito contro il ferro da stiro di Marzelline o la pistola di Leonore: il libretto prevede tali e quali queste apparenti profanazioni.
In primo piano rispetto a un’orchestra e a un coro all’altezza della loro fama, agisce a sua volta una compagnia di canto dedita e onesta, con qualche prova e ottima e qualche altra decorosa ma non adeguata all’importanza del teatro e all’occasione inaugurale. Il migliore in campo è Kwangchul Youn come Rocco: basso coreano assai in vista sulla scena tedesca, vanta voce copiosa e attenzione al dettaglio. Non gli è da meno il forbito Peter Mattei come Don Fernando, se non fosse che l’esiguità cronometrica e l’uniformità psicologica della parte rendono meno laborioso il suo compito. Spiace invece ritrovare in conclamato declino Falk Struckmann, principe dei baritoni vilains tedeschi: il suo Don Pizarro suona oggi assai affiochito nella voce e dunque meno autorevole nel carattere. Come Marzelline, Mojca Erdmann si accontenta di farne una generica soubrette, peraltro tremula nell’emissione e non impeccabile nell’intonazione; al suo fianco, come Jaquino, Florian Hoffmann è un tenore importato dal modesto comprimariato della Staatsoper di Berlino, e già la parte beethoveniana rischia d’essere per lui un passo più lungo della gamba.
Si apprezza infine l’impegno di Anja Kampe, Leonore di fama internazionale per essere stata scelta a tale ruolo, sei anni or sono, dal compianto direttore dei direttori (e giammai specialista di voci). L’impegno e la referenza, tuttavia, non sono sufficienti: ora come allora, al primo uscire dal pentagramma, il canto è gravemente sforzato nell’acuto e spiacevolmente svuotato nel grave; presto stanca, la cantante deve trascurare il lato espressivo per cercare le note in quanto tali, e liquida così al risparmio tanto l’aria dell’atto I quanto il duetto del II. Né l’attrice va esente da disattenzioni: l’atteggiarsi virilmente ha il suo senso in presenza dei carcerieri, ma non – come invece avviene – nella citata aria dell’atto I, dove Leonore può e deve ritrovare la femminilità prigioniera. Poca cosa, in definitiva, nel teatro dove quattordici anni fa si applaudiva nella stessa parte Waltraud Meier. Qualche dubbio lascia anche Klaus Florian Vogt come Florestan: non sorprende il suo noto stile di canto, ridotto a un esangue filo di voce incolore, radente il falsetto benché risonante; se non altro, l’attitudine espressiva è rimarchevole, assecondata da una pari musicalità.
foto Brescia Amisano