Il timido risveglio di un Werther
di Stefano Ceccarelli
Finalmente l’Opera di Roma dà segnali di ripresa; timidi, è vero, ma abbastanza evidenti. Certamente questa produzione della Werther stupisce per alcuni fattori, come il cast vocale e la direzione orchestrale (López-Cobos). La regia (Decker), sovente punto dolente di una produzione operistica, questa volta ha una sua idea di fondo, solida, concreta: poi è ovvio che possa piacere o meno. Un po’ come le scene. La sensazione generale è quella di una produzione ‘con i piedi per terra’, come non lo era stata Rusalka.
ROMA, 21 gennaio 2015 – Ci voleva la magia della Werther, il setoso tessuto musicale che Jules Massenet abilmente riesce a cucire attorno alla celebre storia del goethiano I dolori del giovane Werther, per far dimenticare al pubblico romano le tragiche e ancora recenti ferite, politiche e artistiche − peraltro spesso (auto)inferte −, del massimo teatro dell’Urbe. Una claudicante − non solo per colpa della produzione in sé, ma dei tempi flash in cui si fu costretti a crearla − Rusalka ha lasciato l’amaro in bocca per la mancata Aida e ha sortito l’effetto contrario a quello desiderato: farci rimpiangere ancor di più la defezione di Muti. Ma a scacciare questi scuri nembi viene un dolce zeffiro francese, una brillante e raffinata partitura parigina fin de siècle, nelle vesti di una produzione rodata e più volte esperita, che è in scena fin dalla première assoluta a Amsterdam nel 1997 (più precisamente, la produzione romana è tratta dalla versione per l’Opera di Francoforte).
Punta di diamante di questa produzione è la presenza del celebre direttore Jesús López-Cobos, oramai nella sua piena maturità artistica. Fin dall’attacco del preludio si comprende l’idea che tempera la sua direzione: far brillare tutta la maglia orchestrale di quella tersa luce berlioziana tipica delle partiture francesi dell’epoca, caratterizzando i momenti topici e considerando l’orchestra non la tribuna d’appoggio delle voci, non l’impalcatura, ma l’elemento liquido all’interno del quale si muovono le voci e per mezzo del quale hanno senso. Così, lo spagnolo raggiunge un’intensità impareggiabile nelle celebri pagine del Clair de lune (“Interlude orchestral” del I atto), dove l’orchestra palesa il suo stato di grazia soprattutto nella resa del vapore che sorregge l’esecuzione solistica del violino e del violoncello; e nel Premier Tableau del IV atto, dove l’orchestra evoca una violenta nevicata nella notte di Natale (La Nuit de Noël), che ha alle sue spalle tanta scrittura operistica italiana (da Rossini a Verdi). Ma questi sono solo esempi di un’ottima resa generale della partitura, in perfetta armonia con le intenzioni del direttore.
Non da meno sono la maggior parte delle voci. L’opera è ipso facto un lungo melologo del tenore, inframmezzato da squarci di radiosa liricità: si può infatti dire che Werther è il tenore stesso. E, dunque, chi si accinga a cantare il ruolo ha una responsabilità enorme. Francesco Meli, tra i tenori più dotati del panorama mondiale, non può che far benissimo, per più ragioni. Tutti conoscono la sua naturale musicalità, mai sforzata né resa stentorea; e come tacere del bel timbro, pastoso, robusto come una quercia, dalle tinte elegantemente brunite, sabbioso; oppure della sua tecnica, capace dei passaggi, tutti sul fiato, più raffinati, dei legati, delle agilità sgranate, dei passaggi di forza che molta parte della partitura impone. Insomma, una performance ai limiti della perfezione. Chiudendo gli occhi sembra quasi di sentire Carreras, come l’incisione del 1980 con Sir Colin Davis ce l’ha donato. Fin dal suo arioso «Ô spectacle idéal d’amour et d’innocence» si palesa tutto il talento di Meli, alla ricerca sempre del fraseggio soffuso e sensato, non facendo mai cadere una frase; così pure nel duetto con Charlotte che chiude il I atto, nella delicata atmosfera erotica lunare, di cui la musica è perfetta traduzione. Nella breve aria conclusiva del II, «Lorsque l’enfant revient d’un voyage avant l’heure», nel mesto fraseggiare sul motivo, v’è l’unica, leggera défaillance, l’esplosione al si naturale, che non esce benissimo, vera tomba di tenori. L’apogeo del gusto è in scena nella celebre aria «Pourqoi me réveiller, ô souffle du printemps»: la dolcezza tardoromantica della melodia è inanellata perfettamente al fraseggio, condita di giochi chiaroscurali elegantissimi, alla Kraus. Pari padronanza della parte Meli mostra nel duetto della morte che chiude il IV. Una Charlotte toccante e umana inscena Veronica Simeoni, grazie al timbro morbido, caldo e florido, autenticamente mezzosopranile: peccato non possegga, perlomeno ancora, grande potenza; ma l’intonazione, il gusto e il pathos ci sono tutti. Dai dolcemente puerili accenti del duetto al chiaro di luna con Werther (I atto), avanza agevolmente, momento per momento, fino alla catastrofe finale nel duetto del IV. Il punto topico della parte di Charlotte, l’unico veramente solistico, è la lettura della lettera (III atto) seguita da «Va! Laisse couler mes larmes», tragico emblema della rassegnazione borghese al dolore, eseguita con grande trasporto. Ottimo il mezzo vocale di Jean-Luc Ballestra, un Albert di lusso. Quella voce scura, ombrata, virile, sensuale, scolpisce un Albert un po’ monolitico, ma credibile. La Sophie di Ekaterina Sadovnikova è buona: questo soprano, dalla voce acuta, poco potente, ma capace di decorose agilità, dovrebbe limitarsi a ruoli di tal fatta, eminentemente protesi al registro acuto. Gli squarci solari dei brevi confetti ariosi della parte bozzettistica di Sophie donano alla partitura quella caratterizzazione francese autenticamente da opéra-comique. Buoni i comprimari, su cui spicca il Bailli di Marc Barrard. Bravissimo il coro di voci bianche (José Maria Sciutto).
La regia di Willy Decker, nel suo impianto generale, non sembra affatto priva di senso. Uno dei pregi principali è la convinzione e naturalezza con cui tutti i personaggi eseguono i loro movimenti. D’altra parte, però, non mi piace tutto: l’ambigua, perenne presenza di Schmidt e Johann, forse ipostasi del più nero senso morale borghese, li rende quasi manovratori di una farsa di marionette; il suicidio di Werther messo in bella vista fin nell’azione del preludio anticipa troppo il finale. La regia è modellata interamente sull’impianto scenografico (Wolfgang Gussmann, curatore anche dei costumi), monocorde e monocromatico sul blu: tutto si svolge idealmente fra le pareti della camera di Charlotte. Una prospettiva accidentale, sedie sparse, il ritratto della madre della ragazza, monito borghese al dovere, una stantia carta da parati blu, monocroma e dai sinistri connotati, acuiscono le idiosincrasie psicologiche di Charlotte; tutta la vicenda sembra filtrata dal punto di vista della ragazza; o, meglio, sembra il parto psicotico della sua mente resa debole dall’indefessa repressione di un sentimento semplice quanto naturale. I costumi non sono eccezionali, e molti personaggi rimangono con lo stesso per tutta la rappresentazione (Charlotte, Sophie, Albert ecc.). Werther ha la fortuna di un cambio d’abito, ma ambedue le sue mise non sono degne di nota. Se la prospettiva porta allo spettatore è sempre quella claustrofobica di un interno, un pannello semovente si affaccia su un esterno indistinto, accerchiato da un cielo, che funge da evocazione dell’altro fuori dalla casa borghese e che si colora grazie al sapiente gioco delle luci. Unico momento magico della mise en scene è la nevicata del IV atto, che si dovrebbe scorgere dallo studio di Werther (in realtà sempre la camera di Charlotte). Il richiamo ai simboli borghesi della casa e della chiesa si concretizza fin dall’inizio nei giochi dei bambini, che si divertono con dei modellini di case di un villaggio, riproposti a opportuna grandezza come sfondo scenico per Wetzlar. I tableaux, dunque, per quanto monotoni, non stancano; eppure non lasciano a bocca aperta.
Una produzione finalmente degna di nota, che ridesta il Teatro dell’Opera di Roma da quel grigio torpore in cui s’era avvolto dopo l’abbandono di Muti. La speranza è che la stagione (quella di qualità) inizi proprio ora e prosegua in una climax ascendente.
© Yasuko Kageyama / Teatro dell’Opera di Roma