Carmen: sigari, rum e rivoluzione
di Pietro Gandetto
La Carmen cubana di Livermore al Teatro Carlo Felice di Genova: un allestimento innovativo che nel complesso ha soddisfatto il pubblico della Superba.
Senza dubbio dalla prima rappresentazione del 3 marzo 1876 all’Opéra-Comique di Parigi, la Carmen di Georges Bizet è stata una delle opere più rappresentate nei teatri lirici di tutto mondo. Di Carmen se ne sono viste tante, e quella andata in scena il 9 maggio al Teatro Carlo Felice di Genova non è di certo passata inosservata, sia per alcuni spunti sicuramenti eccellenti, sia per altri un po’ meno interessanti.
Dopo il recente e meritato successo di Billy Budd, il raffinatissimo regista torinese, Davide Livermore, ha riproposto l’allestimento della stagione lirica 2013/2014 del teatro genovese, che colloca la Carmen nella Cuba del 1959, nei giorni della caduta del dittatore Batista e dell’ascesa al potere di Fidel Castro. Un’opera, quindi fortemente permeata dallo spirito della Revolucion castriana. Contrariamente a quanto si è detto da più parti, riteniamo che la scelta di ambientare Carmen a Cuba anziché nei pressi di Siviglia non sia stata così audace e fuori luogo: anzi, le similitudini tra l’opera e il mondo cubano sono effettivamente innumerevoli (cfr. fra tutte, l’Havana-Habanera). Tuttavia, quello che forse ha convinto di meno, è il fatto che questa ambientazione, trasferendo l’opera in un altrove così distante dall’atmosfera e dalla magia volute da Bizet ha finito per di distogliere l’attenzione del pubblico dalla musica, ma soprattutto dai cantanti. A mero titolo esemplificativo, abbiamo trovato un po’ eccessivi i plurimi e ripetitivi richiami alla tematica socio-politica: troppi i pugni chiusi alzati, troppe le proiezioni simil-cinematografiche del volto di Che Guevara e delle scritte rivoluzionarie, troppi i richiami politici che (indipendentemente dal colore) poco o nulla s’inseriscono nello spartito di Bizet e troppi i balletti in stile caraibico che accompagnavano le arie di Carmen.
Detto questo, è stata comunque una regia di qualità, che ha regalato al pubblico momenti, come dicevamo, molto interessanti. Pienamente riuscita la scena finale della rivoluzione, in cui ben è stata resa la tragicità e la forza drammatica tipiche dei contesti di disordine sociale: davvero toccante la scena della morte di Zuniga ("C’est la guère") e il morceau d’ensemble con il taglio di gola dei tre doganieri.
Altrettanto coinvolgente la scena delle carte in cui ben è emerso il contrasto tra la leggerezza e la giocosità di Frasquita e Mercedes e la tragicità dei presagi di morte che le carte riservavano a Carmen. Molto d’effetto anche le entrées di Escamillo, che irrompe sulla scena guidando un’auto modello cadillac e scendendo da una moto cromata da vero gangster. Un climax ben strutturato di emozioni e scene d’effetto che ha avuto il suo culmine nella scena della morte di Carmen, di altissimo effetto drammatico ed espressivo. Buona ed essenziale la scenografia, costituita quasi unicamente da una grande scalinata, sostituita solo nelle scene finali con un’impalcatura roteante che domina la folla ed ospita il corteo di Escamillo e da qualche transenna che separa il popolo dalla morte di Carmen.
Venendo ai cantanti, senza infamia e senza lode la Carmen di Sonia Ganassi. Da questa artista di indiscussa caratura vocale e interpretativa, che negli anni ci ha deliziato - con ottimi risultati - nel repertorio belcantistico del primo Ottocento italiano, ci aspettavamo qualcosa di più rispetto a una Carmen così dura, aggressiva e militaresca.
A onor del vero, la presenza scenica di Sonia Ganassi è buona e la grinta non è mai mancata: è stato quindi ben reso il lato forte, deciso e provocante della sigaraia cubana. Quello che invece è mancato – con notevole impatto sulla resa complessiva del personaggio – è stato quel fascino e quell’espressività un po’ esotica, quella morbidezza nella voce e quella sensualità bohèmien indispensabili per il ruolo di Carmen, la duttilità nel fraseggio, la leggerezza e la grazia nei movimenti e la capacità di “stregare” il pubblico e di traghettarlo nel magico modo della vie de bohème. Davvero ben riuscita, invece, la scena finale in cui la Ganassi ha dato prova delle proprie qualità drammatiche, proponendo un’interpretazione ricca di pathos e di traporto.
Passando a Don José, davvero eccezionale l’esecuzione di Francesco Meli cui il pubblico ha tributato una meritatissima ovazione al termine dello spettacolo. Che Francesco Meli sia bravo, tutti lo sappiamo. Ma la sua performance di venerdì sera ha davvero dato un valore aggiunto allo spettacolo. Una voce luminosa e cristallina, invidiabile per colore, brillantezza e proiezione del fiato. Sotto il profilo scenico, Meli si è dimostrato interprete maturo ed efficace sia sul côté ‘istituzionale’ del brigadier, orgoglioso protettore dei valori e dei doveri verso l’esercito e la madre, sia sul côté ‘impetuoso-aggressivo’ dell’amante innamorato, respinto da Carmen, e accecato dalla gelosia. In "La fleur" un susseguirsi di colori e sfumature di sicuro impatto.
Altrettanto unica la Micäela di Serena Gamberoni. Una voce calda, ben timbrata e appoggiata su un fraseggio elegante e raffinato, totalmente in linea con la grazia e la femminilità del personaggio. Un’interpretazione delicata ma assertiva, caratterizzata da quel quid pluris che le ha consentito di superare lo stereotipo della Micäela ‘casa e chiesa’, devota al proprio amore e intrappolata nella propria fede religiosa. L’espressività e il carisma di questa Micäela sono andati crescendo nel corso della serata, per culminare nelle celebre aria "Je dis que rien ne m’epouvante", in cui la Gamberoni ha letteralmente incantato il pubblico genovese.
Eccellente la performance di Mattia Olivieri che ha dato vita a un Escamillo veramente frizzante. Doppiamente bravo perché - nonostante sia stato difficile, per il pubblico, immaginare un torero che sfida i tori vedendo un Fidel Castro che aizza la folla col pugno chiuso alzato - il giovane baritono modenese ha saputo trasmettere appieno quell’allure e quell’energia che ci si aspetta da un vero matador spagnolo. Dotato di un materiale vocale di altissima qualità, Mattia Olivieri ha colpito il pubblico non solo per la sua voce calda, vellutata e avvolgente – ma anche per la sua presenza scenica magnetica: una spiccata naturalezza nei movimenti e un’energia impetuosa e moderna, ben capaci di dar voce alla vanità di Escamillo e alla sua voglia di essere al centro della scena.
Voce squillante e fisico da mannequin per Daria Kovalenko che è stata un’ottima Frasquita e altrettanto morbida e brunita la voce di Marina Ogli che ha dato il giusto colore a Mercedes. Buoni Roberto Maietta e Manuel Pierattelli, rispettivamente Dancaire e Remendado. John Huckle è stato un buon Zuniga e Ricardo Crampton bene ha fatto in Morales.
L’orchestra diretta dal Maestro Philippe Auguin non ha brillato per espressività. Una direzione un po’ carente di trasporto, con colori indefiniti e accompagnamenti al canto ordinari. Anche la performance del coro è stata un po’ sotto le aspettative: considerato anche il ruolo di coprotagonista che il coro riveste in quest’opera - in cui è chiamato ad esprimere e amplificare le emozioni di Carmen - quello che forse ci si aspettava era una maggiore modulazione di colori e sfumature.
Davvero sgargianti i costumi di Gianluca Falaschi. Carmen entra in scena con una camicetta e una longuette anni 30, veste un abito più frivolo nel secondo atto e nelle scene finali indossa una divisa militare di stampo nazifascista. Un po’ impegnativi il pantalone giallo e la camicia rossa di Don José e l’abito anni 50 in raso rosa di Micäela. Per il coro un pout pouri di costumi gialli, rossi, rosa, arancioni, azzuri.
Nel complesso lo spettacolo ha riscontrato un buon consenso fra il pubblico, che ha tributato corposi applausi a Sonia Ganassi e una vera e propria ovazione alla coppia Meli-Gamberoni, veri protagonisti della serata. In conclusione, una Carmen assolutamente da vedere perché mai banale e di certo non priva di momenti eccellenti.
foto Marcello Orsatti