Cattolico luterano (all'inglese)
di Roberta Pedrotti
La monumentale messa cattolica del luterano Johann Sebastian Bach risuona, per l'inaugurazione del Bologna Festival 2015 nell'esecuzione del New London Consort, una summa delle peculiarità, dei pregi e dei difetti dell'impostazione barocca e sacra anglosassone.
BOLOGNA, 18 marzo 2015 - Cuius regio, eius religio, ovvero ogni regione segua la religione di chi la governa, come sancì la Pace di Augusta nel 1555 per mettere fine ai contrasti politico-religiosi scatenatisi con la Riforma protestante. Più facile a dirsi che a farsi, però, e le aspiranti teste coronate trovavano certo più conveniente, in molti casi, emulare la disinvoltura confessionale di un Enrico IV di Francia. “Varsavia val bene una messa”, avrà pensato il Principe Elettore Federico Augusto di Sassonia apprestandosi a salire al trono, nel gennaio 1734, anche della cattolicissima Polonia, e se questo diffuse la fede romana anche sui suoi domini tedeschi, non per questo Lutero venne spodestato. La corte di Dresda, com'è ovvio, adottò il rito cattolico, mentre Lipsia non mutò sostanzialmente abitudini e storicamente i compositori - per ragioni di borsa o di fede - difficilmente non hanno mai troppi problemi a prestare la propria opera ora all'una ora all'altra liturgia, territorialmente e spesso strutturalmente contigue.
Bach non fa eccezione e fa bene Carlo Vitali, nelle note di sala, a ribadire quanto sia fuorviante pensare alla Messa in Si minore (nella quale, peraltro, è in realtà il Re maggiore a dominare) come a una sintesi ecumenica fra Roma e Lutero. Si tratta di una messa cattolica, in omaggio al sovrano che solo tre anni dopo la dedica (nel 1736) gli conferirà la carica ambita di compositore di corte. Inevitabile, però, che qualche formula sia testuale sia musicale riemergesse nella penna di un autore abituato quotidianamente a frequentare i riti protestanti in un contesto in cui sempre più, con la conversione regale, Riforma e Controriforma si incontravano e si osservavano da vicino. È, evidentemente, la messa cattolica composta da un cristiano ardente ma di pratica luterana, che non vive le espressioni rigogliose, la polifonia e il pathos turgidi, i chiaroscuri della tradizione sacra italiana, bensì soprattutto l'intima riflessione, severa e meditata. La stessa lingua latina, che il rito romano intende particolarmente plastica e vivida, là dove si sia abituati a pregare in altra lingua cui si attribuisce quella partecipazione e quella comunicativa può divenire un idioma puramente spirituale, quasi astratto, versato alla stilizzazione razionale dell'intreccio contrappuntistico.
Di certo l'interpretazione del New London Consort, per questa inaugurazione in grande stile del Bologna Festival 2015, va in questa direzione, evidenziando lo iato con il caravaggesco barocco italiano cattolico in un'interpretazione di marca prettamente inglese. Suoni chiari, controllatissimi, volumi contenuti, organico essenziale (pessoché a parti reali, ma con raddoppiamenti inusuali nelle voci maschili), nessuna esuberanza, nettezza quasi tagliente dei violini, discrezione dei bassi, massima misura per flauti, oboi, trombe e corni. Visivamente il colpo d'occhio è di pittorica eleganza: strumentisti in nero, cantanti uomini in completo con camicia bianca e senza cravatte o papillon, le signore in lungo con begli accostamenti dei toni del porpora, del bordeaux, dell'ottanio, del petrolio e del muschio.
Il canto è, parimenti, un manifesto di stile e tradizione anglosassone. Le voci femminili (fra le quali i soprani soli Penelope Appleyard e Lucy Page) ricercano un suono angelico, diafano, annullando quasi la vibrazione. I due controtenori (di cui il programma nomina il principale solista David Allsopp) coltivano emissioni bianche, vagamente nasali, anch'esse astratte, lontane dalle morbidezze e dai chiaroscuri espressivi ricercati dai colleghi delle ultime generazioni, non solo di scuola latina. Il discorso non muta con i tenori Jorge Navaro-Colorado e Joseph Cornwell; fra i due bassi si cita il solo Michael George, sulla cui resa nelle due splendide arie, compresa quella potenzialmente più spettacolare con corno concertante, pesa però il trascorrere del tempo, che affievolisce e ottunde il canto.
Dopo i fatti di cronaca che hanno allontanato il previsto Philip Pickett per qualche tempo dal podio, subentra il sicuro David Roblou, musicista non meno esperto e titolato, da quattro decenni collaboratore del New London Consort e capace di condividerne, guidarne ed esaltarne l'inconfondibile sapore tipicamente britannico. Perfino certe pronunce latine esotiche (soprattutto nei soprani, la D di Deus trasformata in una schioccante palatale, la parola altissime con la S semplice e sorda) enfatizzano quel distacco sacrale verso la lingua liturgica che così si distingue dalla densità semantica che assume l'idioma della Vulgata nel canto italiano.
Senza dubbio le peculiarità di questo approccio affondano le radici non solo nella storia delle interpretazioni moderne del repertorio sei-settecentesco, soprattutto nei primi tempi profondamente influenzata dagli esecutori britannici, ma anche nella stessa, ben più antica, percezione della musica sacra e della lingua latina nei paesi della Riforma. Sia, dunque, nella liturgia luterana, in tedesco senza tuttavia ostracizzare l'idioma romano, sia in quella anglicana che, pur rifiutando l'autorità papale, ebbe con il cattolicesimo un rapporto più complesso e sfumato. Resta, tuttavia un rammarico relativo alle voci, affiatate e devote alla causa, ma senza quello scintillio di classe superiore - e, viceversa, con parecchi limiti individuali - ad affermare con forza la validità di una scelta stilistica ed espressiva che ha fatto della discrezione e dell'essenzialità il suo tratto distintivo fino alle estreme conseguenze.