Fuori dall'umano
di Anna Costalonga
Lang Lang attira un pubblico numerosissimo, entusiasta, avido di acrobazie tecniche, ma il suo pianismo disumano per spettacolarità, lo è anche per mancanza di un'autentica anima espressiva.
LIPSIA, 15 aprile 2015 - La Gewandhaus è al completo per i concerti di Lang Lang, anzi, di più, è overbooked, a tal punto da aver disposto sul palco immediatamente dietro al pianoforte una serie di sedie per accontentare l’esubero di richieste. L’atmosfera è quella di un grande ritrovo “popolare”, in cui Lang Lang entra con la stessa allure di un vero divo e si mette a suonare immediatamente, appena seduto.
Come primo brano e per omaggiare Lipsia, ci ha proposto il Concerto Italiano di Bach.
Un tocco sicuro, percussivo, presente, anzi troppo presente e troppo terreno. Manca un’eco nel suo Bach e lo si capisce soprattutto nel secondo movimento. L’eco di una sostanza che non sia presenza, né pesantezza del tocco, né perfezione programmata, ma che derivi piuttosto da una sottrazione, da un’attitudine più meditativa.
Lang Lang ha dato poi il meglio con temi più figurati, benché si noti la ricerca di una espressività, di un filo logico, che peraltro non sempre è riuscito a comunicare. Questa ricerca, che avrebbe dovuto esserci nel secondo brano in programma, le Stagioni di Čajkovskij, ad esempio, ha faticato a farsi strada e ad arrivare allo spettatore. Avremmo dovuto essere presi per mano, per così dire, essere condotti in dodici mesi e innumerevoli suggestioni sonore e estetiche.
Al contrario, nei brani più lenti si è notato un appiattimento generale: la ricchezza coloristica di Čajkovskij è stata spesso ridotta a un melodismo composto, quasi più adatto allo Schubert delle ultime sonate che non alla vitalità e alla malinconia straziante del compositore russo.
La suggestione del suono, non della tecnica, un suono che non rientri per forza nelle categorie del brioso, del giocoso, o del melodico spiccio: questo è mancato nella prima parte del programma.
Molto meglio la seconda parte, dove Lang Lang ha eseguito i quattro scherzi di Chopin. La sua capacità di dominare tecnicamente le tempeste dei primi tre scherzi è fuori dal comune. In generale, la sua performance chopiniana è stata fuori dal comune, e aggiungerei, fuori dall’umano, in tutti i sensi.
Mancava infatti l’umanità - l’umanità della disperazione nel primo e il mistero nell’attacco del terzo, ad esempio.
Anche qui ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte a una macchina, a una fabbrica di note perfetta, che non riesce però a comunicare all’ascoltatore nessun’altra categoria estetica oltre al tempestoso o al grazioso.
Da un punto di vista espressivo, forse la sua esecuzione del quarto scherzo è uscita a distogliere per una volta dal rassicurante, dalla mancanza di echi dei precedenti tre, convogliando un minimo senso di triste rimpianto.
Rassicurante, già: non c’è niente di spaventoso, di drammatico, di oscuro o, perché no? demoniaco nella sua interpretazione dei quattro scherzi.
L’espressività latita, oppure è programmata, accuratamente recitata e non impersonata, nonostante la gestualità apparentemente sofferta e partecipe.
D’altronde l’audience che ha accalcato la Gewandhaus, con scene quasi da idolatria rock, non attendeva che questo, il funambolismo sulle difficoltà tecniche. La stessa audience mostrava invece segni di nervosismo e spazientimento durante l’esecuzione delle Stagioni di Čajkovskij, forse dovuti alla mancanza di giochi d’artificio.
Lang Lang si è poi prodotto, tra la standing ovation del pubblico, in due bis, una melodia popolare cinese e in un circense Rondò alla Turca di Mozart.