L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Tocco e rubato: Volodos e il piano

 di Stefano Ceccarelli

Nel programma delle esecuzioni pianistiche all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia − che in Italia, probabilmente, non trova eguali per talento di interpreti e organicità − si inserisce anche il recital del pietroburghese Arcadi Volodos: Brahms e Schubert i compositori prescelti. Un tenero Brahms, quello della trascrizione pianistica del Tema e variazioni in re minore op. 18b dall’Andante del Sestetto op. 18, e un Brahms intimistico, quello dei Klavierstücke op. 118. Uno Schubert della maturità, del consapevole capolavoro, quello che occupa l’intero secondo tempo: la Sonata in si bemolle maggiore D. 960, dalla trascinante emozionalità.   

ROMA, 13 maggio 2015 – Una sala alquanto vuota − da quanto ho capito c’era una partita di calcio… un vero peccato (ovviamente per chi non è venuto)! − accoglie l’ingresso del russo Arcadi Volodos, pianista dall’andamento pacato, pacioso (tutta sostanza, tanta sobrietà: lo dimostra il suo sedersi su una sedia al posto del classico sgabello). Tanti giovani − soprattutto tanti ragazzi europei: ho sentito parlare tedesco e francese − per fortuna siedono in platea. Il primo tempo è tutto brahmsiano. Si inizia col Tema e variazioni in re minore op. 18b, una trascrizione per pianoforte del secondo movimento del Sestetto op. 18, da Brahms donato a Clara Schumann per la ricorrenza del genetliaco della donna; la qual Clara lo presentò in pubblico il 31-10-1865. Una trascrizione felice, giacché il Sestetto era «splendente nell’armonia, della gioia e di tutta la bellezza d’un Raffaello» (Hainslick). Volodos propone un’esecuzione politamente argentina, che ben si attaglia a un pezzo e variazioni che a tratti assumono i connotati armonici post-barocchi bachiani; il tocco eminentemente soffuso, sfrondato di eccessiva marcatura sonora, elegiaco − che è un po’ la firma del pianismo di Volodos − tornisce bene la genuina, fresca, spensierata melodiosità che floridamente è profusa nel pezzo. L’esecuzione del Tema e variazioni brahmsiano acquisisce, così, la palma della miglior esecuzione della serata. Poi ecco i sei Klavierstücke op. 118: ancora il pianismo delicato, volumetricamente contenuto paga e non poco in questa «piccola pagina intimistica del Romanticismo mendelssohniano» (P. Rattalino, dal programma di sala). L’esecuzione è coerente nelle varie parti, facendo risaltare l’unicità di ogni singolo pezzo. Dopo l’espressivo, movimentato primo Intermezzo e l’oasi di pace del secondo, contrastante nell’ethos col primo, viene la Ballata, una delle pagine meglio eseguite e più celebri, delicata ma eroticamente ardente al contempo. Dopo l’Intermezzo in fa minore, arriva la Romanza, altro pezzo cardine della raccolta, la cui difficoltà è coniugare il tema principale, da far risuonare col canto della voce, rispettando i legati e, quasi, i “respiri”, con la seconda sezione, più virtuosistica, cameristica, irta di trilli e arpeggi (che Volodos marca forse troppo, a tratti), ritornante poi al primo tema, indugiante, lacustre. L’ultimo Intermezzo, che incomincia con un evocante martellio sonoro, risuona sofferto, poi emozionatamente trascinante. Fin dal primo tempo possiamo tirare le fila di due caratteristiche del pianismo di Volodos: la maniacale pacatezza del tocco sonoro e una tendenza al rubato sul tempo (quasi un rubato chopiniano). Il pubblico applaude, ma non è ancora pienamente soddisfatto: sento qualcuno mormorare sull’assenza di comunicatività nel pianismo di Volodos. Un giudizio, a cui non mi sento totalmente estraneo. Non certo per un pigro adeguamento allo stereotipo della glacialità russa, quanto piuttosto all’assenza di una reale empatia con il suonato: simpatia sì, ma non, penso, empatia. E in brani così intimistici, la cui più ardita difficoltà è nella scelta esecutiva, nel taglio emotivo (intensità d’interpretazione; o il far scaturire le sensazioni che l’autore sentiva ecc.), una prudenza emotiva sovente non paga.

Questi limiti del pianismo di Volodos (che − si badi − permane comunque molto interessante, a tratti ottimo, quando le sue idee interpretative collimano perfettamente con l’ethos della pagina pianistica) si sono scorti ancor meglio nel suo Schubert. Infatti, sono curioso di sentire l’interpretazione che della Sonata in si bemolle maggiore D. 960 darà Krystian Zimerman il venturo 10 giugno, proprio presso l’Accademia di Santa Cecilia, in una sorta di involontario agone a distanza fra i due interpreti − involontario, perché Zimerman avrebbe dovuto suonare a marzo, peraltro (se non vado errato) con un altro programma: ma potrei sbagliare! Discorrendo sullo scrostamento pregiudiziale di cui, nel corso dei decenni, le sonate schubertiane hanno − loro fortuna − goduto, Piero Rattalino (sempre nel programma di sala) spiega perché la critica di oggi consideri le sonate di Schubert il contraltare di quelle di Beethoven: «mentre Beethoven, formato ideologicamente dalla Rivoluzione francese, percorre tutte le delusioni seguite agli entusiasmi del 1789, ma riafferma i valori umanistici perenni della Rivoluzione, Schubert vive essenzialmente la disfatta ideologica seguita al Congresso di Vienna. L’assenza di contrasti in Schubert rivela l’impossibilità di un rapporto dialettico con il mondo, il senso della solitudine, la nostalgia priva di oggetto determinato. La Sonata di Schubert viene così intesa non come rifugio discreto e come fantasticheria di una bell’anima ferita, ma come theatrum mundi di un drammaturgo che sa riflettere sui destini dell’uomo». Ecco, Volodos non avrà la profondità interpretativa che, nella D. 960, ebbero Horowitz, Richter e Pollini, ma sa giocare istrionicamente col suono: il suo è un pianismo coloristico, tutto proteso all’espressionismo del mero dato sonoro − in questo approssimandosi più all’interpretazione di Horowitz, direi, ma con una pedaliera più marcata. La dolce rêverie, che sfocia in afflati anche epici, del I movimento attesta, appunto, questa qualità incredibile nel tocco della tastiera, di un’interpretazione che rifiuta qualsivoglia magniloquenza, anzi riduce al minimo ogni effetto, porgendo un suono carezzato e carezzevole, talvolta più argentino, clavicembalistico, con passaggi più marcatamente rubati, altri più accelerati. Nel II movimento, Volodos mantiene volutamente ombrata e martellata la cupa parte iniziale; poi porta l’intensità verso zone più luminescenti, con crescendo e climax ascendenti che gestisce con pennello caravaggesco. Il contrasto col III è assai marcato: ancora Volodos sgrana acutamente gli arpeggi (sembrano delle delicate frustate). Ora ci si è ben abituati, però, al suo bagaglio interpretativo. Il IV movimento, quindi, ci stupisce soprattutto per le aperture liriche iniziali, ma poi tende lievemente a appiattirsi in una interpretazione più convenzionale. Gli applausi giungono calorosi: non si fanno attendere dei «bravo!». Rimane un ottimo concerto, anche se Volodos potrebbe aggiungere qualche freccia interpretativa alla sua faretra. 


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