L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L’ultima scena

 di Stefano Ceccarelli

Un commosso applauso sigla la fine di questo straordinario ciclo sinfonico beethoveniano diretto dal maestro Antonio Pappano. Siamo arrivati alla fine di un’esperienza monumentale e, per alcuni versi, persino inedita (particolarissimo l’accostamento di una sinfonia di Beethoven a lavori appositamente commissionati per accompagnarla). A chiudere il ciclo delle tre opere contemporanee è Fabio Nieder con Danza di C. S. fra gli specchi. La Prima e la Terza di Ludwig van Beethoven coronano e terminano la serie delle nove. Un ciclo che ha visto 5 concerti per un totale di 15 serate di musica. Un commosso applauso, appunto: quello di chi ha assistito a un evento di portata storica.

ROMA, 2 novembre 2015 – Il maestro Antonio Pappano procede sul podio. Microfono alla mano, saluta il pubblico astante e quello del web – siamo in diretta streaming su PappanoinWeb –, parlando brevemente della nuova composizione commissionata a Fabio Nieder dall’Accademia di Santa Cecilia, Danza di C. S. fra gli specchi. (Incredibile coincidenza che la serata sia stata dedicata alla scomparsa, or son due anni precisi, di Candido Speroni, marito di Carla Fendi – tutta la famiglia Fendi è mecenate dell’Accademia –, che non avrebbe nulla a che fare con la persona celata dietro l’acronimo C. S.). Dopo aver ricordato brevemente che Beethoven è un po’ come un nostro nutrimento, Pappano afferma che il suo processo creativo ha informato tutta la musica occidentale (si pensi all’Eroica), rammentando anche l’infinita verve ritmica del tedesco, ancor più evidente nel confronto con una partitura contemporanea. Nell’introdurre Danza lenta di C. S. fra gli specchi, Pappano la descrive come una danza per grande orchestra ammantata da un alone di mistero imperniato nei rallentamenti temporali e nella varia tavolozza timbrica: una danza di notturna atmosfera. All’attacco delle prime battute della partitura si fa subito udire un molesto cellulare (molesto e pervicace, direi), deconcentrando il pubblico che deve riaversi per ascoltare una serie di lente, ondulatorie pulsazioni, rigurgiti di suoni amplificati da un uso caleidoscopico delle timbriche strumentali. Gli archi sono talvolta associati a strumenti dal suono elefantiaco, come gli ottoni bassi (col rinforzo del fagotto). Questa sorta di canone melmoso – la denominazione danza è solo, in fin dei conti, un pretesto – viene ridestato dall’entrata inizialmente sclerotizzata degli ottavini, che poi guizzano e sfavillano coi triangoli nel momento inventivo, almeno a mio avviso, migliore della partitura; il pezzo, poi, fluisce stagnante, funereo come prima, e si va spegnendo. Gli applausi sono tiepidi, anche alla salita dell’autore sul palco. La partitura, che ha una genesi strutturale complessa e legata al succedersi di numerologie, all’atto esecutivo risulta alla lunga monotona, più apprezzabile invero sul lato meramente estetico, avendo nell’uso orchestrale dei timbri il suo fiore all’occhiello – talune sonorità, chiudendo gli occhi, mi hanno ricordato Stravinskij o Musorgskij. Delle tre nuove commissioni appositamente apprestate per questo ciclo beethoveniano, Danza lenta di C. S. fra gli specchi è certamente la meno appariscente e appetibile al grande pubblico, forse troppo sofisticata (e infatti l’orchestra ha dato prova di grande bravura nel destreggiarsi in un pezzo per nulla semplice).

Pappano chiede sol breve indugio ed è pronto alla Prima sinfonia in do maggiore op. 21 di Beethoven, che inizia con quei soffusi accordi di legni, preludenti all’Adagio molto, così – per così dire – in medias res. Pappano dirige alla tedesca l’Allegro con brio: suoni pulitissimi, ritmi ordinati, il tutto di una tersa atmosfera neoclassica. Le architetture sono squadrate: una vera opera di ‘mozartianesimo’ («sotto l’impero delle idee di Mozart, ch’egli ha qualche volta ingrandito, e dovunque ingegnosamente imitato» scrisse Berlioz). All’Andante cantabile con moto Pappano dona quel carattere galante dolcemente retrò, settecentesco: magnifici i giochi con i vari strumenti, le infinite grazie dispiegate da questo pezzo. Delizioso nei suoi giochini ritmici il Minuetto scherzo. Pappano stacca benissimo nell’Adagio inusitatamente frapposto fra III e IV movimento, un vero aprosdòketon musicale. L’inglese non vede l’ora di far esplodere il Finale nel frizzo degli archi, rinforzati dal resto dell’orchestra, dai timpani; tutta questa costruzione va poi a terminare in una Militärmusik da parata, ma da parata bucolica (Donizetti se ne ricorderà). Applausi a profusione.

Il secondo tempo è interamente dedicato alla monumentale Terza sinfonia in mi bemolle maggiore op. 55, la sinfonia prima dell’amore e poi del plutarcheo sdegno verso Napoleone, reo di essersi lasciato sedurre dal potere: la sinfonia che sarebbe stata ribattezzata come l’omaggio a un futuro, ignoto eroe. Nel rapido attacco dell’Allegro con brio Pappano esalta tutta l’insita nobiltà del suono: tutto il movimento si incardina sull’altera scrittura degli archi, che si sviluppa all’interno di una trama ritmico-timbrica carica di virile potenza. Pappano coglie perfettamente tutto il dispiegarsi della grandeur che è la cifra stilistica del movimento-monstrum. Nella Marcia funebre il direttore fa palpitare di cupezza l’orchestra: i fremiti strumentali scandiscono un ductus mesto, ma risoluto. Pappano rende limpida l’anticipazione della Quinta: la fatidica triade di note rintocca in qualche punto, nelle maglie dell’orchestra. Sublime lo stacco ascensionale verso la tonalità in modo maggiore; poi la sequela di pianti degli archi, che sembrano disperarsi incalzati dai timpani. Tutto questo l’orchestra lo trasmette come meglio non si possa: ecco poi Pappano scolpire gli aneliti della partitura, i tormenti palpitanti, funerei che riconducono al trasfigurato tema principale. Fa bene l’inglese a non abbassare il tono magniloquente nemmeno nello Scherzo, facendo scorrere nobilmente il bassorilievo del tema degli archi e lasciando sfogare i guizzi dei legni: saranno i corni da caccia a richiamarci alla noblesse. Pappano attacca il Finale con millimetrica precisione – il dialogo pizzicato fra gli archi con pertichini dei legni – e fa scorrere le variazioni (tecnica tanto amata da Beethoven), donando a ciascuna la sua unicità. Tutto il materiale confluisce nel potentissimo finale, che termina quest’affresco eschileo, quest’Orestea in puro linguaggio musicale. «Quella musica mi sconvolse» pare abbia detto Rossini a Michotte – galeott o per il leggendario incontro del pesarese proprio con Beethoven: non mi sembra di errare dal vero dichiarando che il pubblico intorno a me ha provato proprio questo fra i commossi applausi.E alfine riuscimmo a sentir tutte le sinfonie di Beethoven.


 

 

 
 
 

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