L'habitat accessibile dei James Farm
di Carla Monni
Unico concerto in programma al Teatro Duse per la X edizione del Bologna Jazz Festival. Quel luogo dove 10 anni fa ebbe inizio il festival bolognese, che accolse già numerosi ospiti del calibro di Cassandra Wilson, Joe Lovano, Steve Grossman, e che quest'anno ha ceduto il palco ai James Farm, un collettivo musicale che raccoglie alcuni dei nomi più significativi del mainstream contemporaneo: il sassofonista Joshua Redman, il pianista Aaron Parks, il bassista Matt Penman e il batterista Eric Harland.
Bologna, 10 novembre 2015 – Il teatro Duse, uno dei più antichi teatri bolognesi, è stato invaso dalle sonorità moderne dei James Farm, un quartetto jazz acustico – classico nella sua formazione – che nelle scelte musicali dei suoi dischi, James Farm (2011) e City Folk (2014), percorre la strada di un jazz contemporaneo, aperto a influenze e generi diversi, e si impegna a sperimentare nuove sfaccettature della sua arte. Una musica originale, in cui convergono pulsioni jazz rock – dettate soprattutto dal pianoforte di Aaron Parks – jazz di tradizione, ma anche sofisticate reminiscenze fusion anni ‘80, ritmi funky e risonanze medio orientali. Diversi modi di fare e intendere il jazz perseguendo l'obiettivo comune di guardare alla modernità e insieme alla tradizione, oltrepassando dunque qualsiasi barriera.
Alla base del quartetto è presente una chimica invincibile, un'incisiva coesione dell'insieme e un fiuto infallibile per la costruzione melodica. Sono infatti melodie tutte molto orecchiabili, forme-canzone che si fanno sempre più palpitanti, vicine a Keith Jarrett e Charles Lloyd, arricchite da una certa poliritmia e dal trascinante groove di Matt Penman ed Eric Harland, il cui dinamismo suggerisce un’infinità di imput al sax e al pianoforte. Ogni traccia racconta una storia, chiaramente disegnata, come nella cantabile e funkeggiante Two Step, che mette in mostra l'indole lirica di Harland mentre percuote piatti e rullante, o il tema di Polliwog, che Parks e Redman si passano a vicenda per poi modificarlo – ritmicamente e armonicamente – con ripetizioni, sincopi taglienti, ostinati e figure irregolari. Parafrasi e variazioni fanno da trampolino di lancio ai virtuosi ma controllati soli del sax e del pianoforte.
I brani sono composti secondo una logica ben ordinata, ogni assolo individuale si incastra perfettamente nell'arrangiamento, come nella raccolta North Star, che permette a Penman di mettersi in mostra con un rapido e legnoso assolo, e a Redman di mostrare la sua arte post bop, qui intinta di soul. La melodia di Otherwise, che inizia con un backbeat funky, diventa invece sempre più contrastante, attraverso il suono romboidale di Penman, le brevi interruzioni del convulso drumming di Harland e i massicci accordi di Parks, mentre Redman si cimenta in ellittiche frasi melodiche. Low Fives è un elegante canzone d'amore che raccoglie i suoni ondulati e liquidi del pianoforte, le spettrali percussioni, il sottile mormorio del contrabbasso e le note sinuose del sax contralto. Momenti di sospensione a di accelerazione si alternano piuttosto in Aspirin.
È un sound sempre stimolante che individua un'immagine del jazz tradizionale – che comunque i musicisti non dimenticano, considerando uno degli standard parkeriani più amati, Anthropology, proposto come bis – completamente modernizzata; una musica aperta alle molteplici influenze di genere e di luogo, raggiungibile facilmente a ogni tipo di pubblico.
«In generale, ci piace pensare che queste canzoni possano aprire una strada; ciascuno di questi brani è come un mini mondo a sé, con un suo ecosistema e luoghi nascosti da scoprire. Vogliamo che questi pezzi non rappresentino solo dei veicoli per l'improvvisazione, ma che riescano anche a raccontare delle storie» (Joshua Redman).