La forza di un Requiem
di Stefano Ceccarelli
Una stretta liaison lega – in un certo qual senso – una certa qual sacra laicità beethoveniana alla Messa da Requiem per soli, coro e orchestra di Giuseppe Verdi, che del pari spira sacramente laicità. Non siamo proprio scesi dall’empireo, ancora, all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Forse non si sarebbe potuto scegliere, rispetto al festival sinfonico beethoveniano, concerto-cerniera migliore di questo. Manfred Honeck ritorna all’Accademia e propone una lettura molto sacrale della partitura, anche troppo forse. Buonissima la compagine dei solisti: Kassimira Stoyanova, Luciana D’Intino, Giorgio Berrugi e Liang Li. Il coro (Ciro Visco) è in forma smagliante: ci offre la migliore performance della serata. Ricchi gli applausi.
ROMA, 9 novembre 2015 – Non siamo ancora discesi dall’empireo dove Pappano ci aveva condotto con Beethoven. Il Requiem di Giuseppe Verdi (nato da un progetto di commemorazione per la morte di Rossini, poi abbandonato e da Verdi ripensato per le celebrazioni della morte del Manzoni) ha una fortissima potenza sacra: ma di una sacra laicità. Lo si comprende, perfino, nelle maglie della musica, così aderente a opere coeve e passate del bussetano. Manfred Honeck della partitura dà invece una lettura fortemente orientata a evocare un’aura di sacralità più religiosa che meramente laica, e pare orientato a eviscerare da quelle note una cristianità verdiana forse più latente che consapevole. Come che sia, la sua lettura è complessivamente orientata a una compattezza d’intenti: a una verticalità volumetrica che sfrutta il ricorrere, in refrain, del Dies Irae per esplicarsi, anzi esplodere nella sua cosmica potenza.
Perno di tutta l’architettura diviene, ovviamente e giustamente, il coro, capace di prodezze ineffabili. Certo Honeck è, anche, cesellatore di passaggi più soffusi, richiesti del resto dall’ethos di molti passaggi: concentra tutte le sue energie spirituali nell’esecuzione dei vari numeri. Lo vediamo fin dall’inizio: attende un perfetto silenzio per attaccare il languido preludio degli archi bassi del Requiem. Il coro ci delizia con passaggi in piano colorati in maniera magnifica, preludenti all’esplosione di luce musicale sul verso «et lux perpetua luceat eis».
Cominciamo a conoscere i solisti nel Kyrie eleison. Anche se Giorgio Berrugi s’è fatto annunciare malato, la sua voce non m’è parsa né stanca, né malconcia. Anzi: lo squillo, il piglio, il timbro nobile e chiaro, l’emissione senz’ostacoli si sono sentiti tutti; e se, ma solo talvolta, assistiamo a qualche pur fisiologico calo, non v’è da meravigliarsi. Si fa sempre notare positivamente nei pezzi d’assieme e ci regala un eccellente Ingemisco, con una ragguardevole messa di voce su «reus». Liang Li, dalla voce piena, polposa ma non certo cavernosa, anzi molto chiara, quasi baritonale, canta molto bene, con facile emissione e sforzandosi nel fraseggio di render chiara una lingua lontana anni luce dalla sua cultura. Buono il Mors stupebit, ma molto più espressivo il Confutatis maledictis – gioca bene con le mezzevoci e i bassi. Kassimira Stoyanova ha nella chiarezza della voce sopranile il suo punto di forza, anche se si preoccupa spesso troppo di tirarne fuori il più possibile. Risulta in qualche passaggio poco espressiva, causa anche un’emissione a tratti troppo tesa che, a onor del vero, dal Kyrie iniziale va a rilassarsi progressivamente: il finale Libera me è il suo exploit emotivo, dove la Stoyanova ci mostra una salda tecnica (il suo maggior punto di forza) nei passaggi di volume, intensità e registro, e traduce bene il senso di fideistica sospensione – della certezza, cioè, esclusiva, laica, della morte terrena. La migliore del quartetto è Luciana D’Intino: il suo timbro pastoso, delicatamente scurito, pieno, e la sua tecnica adamantina sorreggono perfettamente l’esecuzione. La si è potuta godere appieno nel Liber scriptus – peccato forse un leggero sforzo nell’emissione dei bassi.
I momenti d’assieme sono speciali. Come dimenticare la perfetta armonia del Quid sum miser, la dolcezza tutta femminea del Recordare? Perfetta la coordinazione del Kyrie eleison, dove le voci hanno il sopravvento sulle parole; nel Rex tremendae il quartetto vocale è eccellente, manifestando un ottimo canto ascendente nell’esecuzione della frase «Salva me, fons pietatis». Ricco di pathos, profondo (ma a tratti riesce a esser anche delicato) il Lacrymosa, che attesta una somma maestria nella costruzione dei quartetti vocali; maestria che Verdi esplica splendidamente nel Domine Jesu Christe, dove la smagliante messa di voce – sul mi naturale, declinante poi al bemolle – della Stoyanova su «Sed signifer sanctus Michael» squarcia le nubi di un terzetto nebuloso, portando luce e spostando le voci a cantare nell’empireo. All’entrata del soprano nel Domine Jesu Christe fa da pendant quella del tenore all’inizio dell’Hostias, che Berrugi esegue vibratissima e commovente: il resto del quartetto rende giustizia di un’atmosfera misticheggiante, soprannaturale. L’Agnus Dei è il pezzo più surreale: a distanza di un’ottava si doppiano la voce del soprano e del mezzo con l’antifona del coro. L’esecuzione è notevole: D’Intino e Stoyanova riescono a calibrare bene il volume delle voci. Vero protagonista della partitura è – come ho poc’anzi detto – il coro: compatto, centrato, imponente, perfetto. Il miglior coro che abbia mai sentito dal vivo. Costella e accompagna praticamente quasi tutti i numeri, ma i suoi maggiori e più significativi interventi sono nel Requiem, nel fugato Sanctus e, soprattutto, nel celeberrimo Dies Irae, dove Honeck sfrena il coro al massimo del volume, coro che è anche in grado di eseguire con fraseggio perfetto (rispettando allitterazioni e giochi fonici) la sezione del Quantus tremor.
Al termine dell’esecuzione Honeck sospende il gesto assai a lungo, facendo tacere l’impeto di applauso che sgorgherà solo a un cenno del direttore.