L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

antonio rezza

La ricerca infinita

 di Isabella Ferrara

In scena al teatro Bellini, dal 29 novembre al 4 dicembre ,“Anelante” con Antonio Rezza in un habitat di Flavia Mastrella.

NAPOLI; 29 novembre 2016 - “Tu sei un ragazzo introvabile. Beato chi ti cerca!” nel mezzo della rappresentazione, a un punto imprecisato nella memoria dello spettatore, Rezza, folle matematico e ribelle lettore di opere altrui, si rivolge così a uno degli attori che lo accompagnano in scena. Sono quattro i giovani che, bravissimi, riescono a stargli dietro: Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara Perrini, Enzo Di Norscia. Lo seguono e lo inseguono sul palcoscenico, lo assecondano, ma non si lasciano completamente sopraffare. Mantengono la loro non meglio definita identità di umanità che ruota accanto a ognuno di noi.

In queste poche parole, non centrali nel tema dello spettacolo, di certo non le uniche memorabili, si potrebbe però riassumere e ritrovare il significato del participio presente “anelante”, il significato della storia umana raccontata e rappresentata nel più inaspettato dei modi teatrali, eppure così adatto allo scopo. E alla ricerca. Anelare a una soluzione, a un senso obiettivo, o anche solo soggettivo, della vita che viviamo, delle complessità che affrontiamo ogni giorno; anelare a una risposta alle nostre domande; anelare ad un cambiamento, un miglioramento, una crescita, un affrancarsi dalle difficoltà. Anelare significa combattere, rifiutare la resa, significa non fermarsi, non opporsi al divenire, bensì assecondarlo se non condurlo.

La recitazione di ognuno degli attori e la scena, immaginata e creata da Flavia Mastrella, sono funzionali a questo anelare, a una ricerca a volte spasmodica, a volte solitaria, parlata dal protagonista che si dibatte farsescamente fra le regole imposte dalla società in cui viviamo, e l’anelito alla libertà personale di interpretare la vita a modo proprio. L’uomo–attore si sposta saltellando, anche fisicamente, dalla ferrea logica di una matematica incomprensibile, al vagheggiamento di una libera espressione, che fin da bambini ci viene negata.

Lo spettatore è sorpreso e travolto da un oceano di parole pregne di significato, anche se all’apparenza scaturite da un disordine interiore impossibile da risolvere. Coinvolto in una ricerca a tamburo battente, instancabile come il battere delle sedie su cui gli attori stessi saltano in scena, così come è il divenire delle giornate che viviamo, contesi e allo stesso tempo rifiutati in amore, in amicizia, a lavoro, in famiglia. Una vita da noi vissuta, che a volte non sembra nostra, perché siamo avvinghiati dalle mani di una società di doveri, di regole da seguire in una esistenza che deve apparire piatta per essere normale. Senza mai discostarsi dalla regola di chi lavora in attesa della pensione, che poi non basterà per vivere dignitosamente una vecchiaia incombente; di chi crede nel Dio della Chiesa, forse perché non ha altro a dargli forza; di chi segue i tormenti della psicanalisi con Freud e i suoi sogni di fantasie sessuali destabilizzanti; di chi ha fiducia di una politica inconsistente, che non raggiunge il “numero legale” nemmeno quando si tratta di incontri di mondiale importanza, come un G8 affacciato a finestre virtuali, che conta i suoi partecipanti ma che resta senza presenze decisive.

Appena si tenta di differenziarsi dal normale fluire di una sociale normalità, ecco affacciarsi la follia della diversità, delle scelte alternative, della critica, del dubbio, di una libertà esecrabile perché ancora intimorisce e spaventa, o tutt’al più fa ridere.

Infatti, in un malinteso ricercato, o forse subìto, senz’altro cavalcato nell’imprevisto, la difficile realtà espressa in scena, ballata, mimata, urlata, raccontata, soprattutto parlata dal bravissimo Rezza, instancabile e sorprendente, fa ridere il pubblico in sala.

Ride e si diverte lo spettatore seduto di fronte a installazioni visive di muri e corpi, colori e gesti scattanti, voci confuse ma coerenti a se stesse, distaccate dalla realtà in disordine ma armoniose nel rumore dei nostri pensieri aggrediti dal mondo esterno. Ancora una volta la perfetta scenografia, un habitat interiore ed estraneo, che sorprende di continuo, non segue alcuna regola predefinita, sembra improvvisato, ma ha un ritmo studiato perfettamente che si svolge fra la concentrazione sulle parole, lo spaesamento fra salti e versi umani, e lo stupore per le corali scene di sesso.

È in questo stesso habitat che si ricade nell’interiorità dell’uomo, in quanto essere umano solo con se stesso, che affonda nei propri tormenti come se cercasse di respirare in fondo al mare. Viene a galla, così, tutta una vita irrisolta, che appare traballante a qualsiasi età, oggi più di ieri per chi vive ancora con i genitori che lo sostengono economicamente, e che anche lo depauperano della propria risolutezza e libertà. Una vita e un divenire che oscilla tra l’amore soffocante di una mamma iperprotettiva e di un padre assente, tra l’irreale e impossibile scelta fra chi più ci ha permesso di crescere e chi invece più ci ha ostacolato.

Lo spettacolo si chiude sulla persona, sul protagonista indiscusso, su noi stessi, sull’unica entità davvero rappresentata e reale che, in solitudine, circondato da persone vicine e lontane, fisicamente in scena e metaforicamente presenti, deve emanciparsi, o semplicemente deve follemente andare avanti.

La scena non si chiude, l’uomo resta a contatto con il pubblico, l’“anelante” non finisce nemmeno quando il palcoscenico resta vuoto, perché parlano ancora dubbi e scelte, perché quelle che sembrano libere associazioni mentali hanno invece la logica del divenire, perché non si chiude il palcoscenico finché viviamo, nemmeno la notte, quando per dormire dovremmo avere “il coraggio di stare zitti”.

 


 

 

 
 
 

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