Le bestie nude di Emma Dante
di Pietro Gandetto
Al Piccolo Teatro Strehler fino al 19 marzo 2017, il nuovo lavoro di Emma Dante, Bestie di scena. Un percorso dell’individuo alla ricerca del sé, attraverso un esercizio di sottrazione fisica e mentale.
Milano – 8 marzo 2017. Le bestie di Emma Dante sono creature primitive. Sono esseri spogliati di ogni fronzolo, a partire dai vestiti, e immersi nell’attività più richiedente di tutte, ovvero la ricerca avida di un vuoto funzionale all’arte. L’obiettivo sembra fare tabula rasa di ogni identità, non solo quella personale, ma anche quella attoriale, e quindi investire su qualcun altro, su qualcos’altro, che però qui non è ben definito.
Le bestie di Emma Dante sono vittime e carnefici. Vittime poiché la metafora dell’essere nudi sottende la privazione di un’identità personale, e carnefici poiché essi impongono al pubblico la castrazione dello sguardo, incapace di scorgere e decodificare la realtà scenica secondo i consueti paradigmi teatrali.
Il pubblico entra in sala e trova i quattordici valentissimi attori della compagnia di Emma Dante intenti in quello che di primo acchito sembra un riscaldamento. Come truppe di un esercito al servizio del suo generale, essi incrociano il palco in piccoli gruppi trotterellanti, correndo a ritmo di una musica che esiste solo nelle loro teste. E a mano a mano che queste coreografie prendono forma, le luci si abbassano e si è immersi in questo esercizio di sottrazione. Gli attori si spogliano come gesto di resa, consegnando al pubblico i loro vestiti sudati, intrisi della loro umanità, rinunciando a tutto, prima le scarpe, poi le t-shirt, i pantaloni, e infine anche le mutande.
Mentre lo “svuotamento” si compie, prendono forma i noumeni che gli attori sono chiamati ad abbozzare. C’è chi balla come un carillon, chi fa la scimmia, chi gioca a scherma, chi si muove come una bambola ingessata e chi litiga urlando in dialetti meridionali. Non c’è una trama, non c’è un copione, se non quello creato dai rumori dei corpi, dai piedi che sbattono sul palcoscenico o delle mandibole che masticano e sputano un’ondata di arachidi gettata sul palco.
C’è chi scivola su chissà quale materiale oleoso, in assenza di attrito, come quando si prova a trattenere l’acqua con la mano. E c’è l’acqua, usata così bene da Emma Dante come nell’Habanera della Carmen scaligera del 2009, che vedeva una quasi debuttante Anita Rachvelishvili alla conquista del mondo dell’opera. Insomma, c’è tutto quello che serve per costringere lo spettatore ad accettare o a respingere queste bestie chiuse nel recinto del palcoscenico, verso le quali non si può restare indifferenti.
Uno spettacolo che ha il pregio di inanellare estetica ed etica, come due facce della stessa medaglia, che qui comunicano grazie a una nudità priva di qualsivoglia intento erotico o provocatorio; uno spettacolo che scontorna con vividezza e precisione la fragilità e l’incoerenza dell’essere umano, gettata in pasto al pubblico attraverso una fisicità pulsante e ancestrale. E in quella rappresentazione destrutturante ci si può ritrovare, poiché svuotati di tutto, gli imbecilli ballano, cantano, urlano litigano, seducono e amano, proprio come noi.
Però al pubblico viene chiesto tanto, forse troppo. Viene chiesto di partecipare alla decodificazione di un messaggio ancestrale come le quelle bestie, ma ancora embrionale, o quantomeno incompleto, che non raggiunge tutti, ché forse resta ancora incastrato nella mente dell’autrice. Sarebbe bello pensare a un seguito, a qualcosa che ancora non si è detto e a qualcosa ancora da indagare.
Uno spettacolo autentico e sentito, che non ammicca al pubblico. Un primo esperimento, che ci auguriamo sia il preludio di qualcosa di più, che qui non si è visto, ma solo sfiorato.